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Transizione energetica, tutta la verità sull'idrogeno

Questo combustibile, nella sua versione «verde», promette di accelerare la decarbonizzazione. Eni, Enel e altri big delle rinnovabili stanno sviluppando una serie di progetti grazie anche ai 3,64 miliardi stanziati nel Pnrr. Ma i costi di produzione e impiego restano altissimi.


È la soluzione alla transizione energetica o, come dice il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, «una delle incarnazioni del sogno europeo di salvare il pianeta, al pari dell’elettrico»? Un interrogativo che finora non ha trovato risposta, perché nonostante di idrogeno si parli dagli anni Settanta, quando sembrava il paracadute alla crisi petrolifera, è una fonte combustibile ancora poco usata.

Tanti studi, progetti ma l’applicazione resta marginale e lì dove sono stati tentati gli esperimenti, sono emerse le criticità. Gli obiettivi stringenti di decarbonizzazione imposti da Bruxelles hanno fatto dell’idrogeno un’alternativa ai fossili e una sorta di piano B rispetto alla difficile elettrificazione su larga scala. L’Italia ha stanziato 3,64 miliardi di euro attraverso il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza per accelerare lo sviluppo di questa fonte energetica e l’Associazione italiana idrogeno ha già avviato la realizzazione di più di 50 progetti di «Hydrogen Valley» localizzati sull’intero territorio nazionale. Nello scenario sviluppato da «Hydrogen Roadmap Europe», l’idrogeno verde potrebbe coprire entro il 2050 fino al 24 per cento della domanda finale di energia e creare 5,4 milioni di posti di lavoro, oltre a contribuire al totale riduzione di 560 milioni di tonnellate di CO2.


Tutti i comparti dell’industria stanno studiando le potenzialità di questo carburante. Alcuni progetti sono già operativi, altri in stato avanzato, altri ancora sono stati abbandonati perché troppo costosi e rischiosi. Innanzitutto è bene fare chiarezza sul fatto che non tutto l’idrogeno è uguale. Oggi il suo consumo globale ammonta a circa 75 milioni di tonnellate all’anno, secondo l’ultimo rapporto dell’International energy agency (Iea). Si tratta dell’idrogeno grigio, prodotto principalmente da combustibili fossili, e in particolare dal gas naturale, generando grandi quantità di emissioni inquinanti. L’adozione di sistemi di cattura del carbonio alla fine di questo processo ridurrebbe il suo grado di inquinamento, producendo quello che viene chiamato «idrogeno blu». Ma anche in questo caso c’è un problema di sostenibilità: sia economico, perché i costi di cattura e stoccaggio della CO2 sono ancora proibitivi, sia ambientale, perché il ciclo produttivo non è in grado di catturare tutta l’anidride carbonica prodotta, e comunque lungo l’intera sua catena di produzione il processo emette nell’atmosfera metano, altro gas inquinante. Solo l’idrogeno «verde», che si ottiene tramite l’elettrolisi dell’acqua usando l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, è sostenibile al 100 per cento.

Enel sta sviluppando una serie di progetti per la produzione di idrogeno verde mediante l’installazione di elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili e ubicati in prossimità dei siti di consumo. Di recente il gruppo, insieme a Eni, ha incontrato a Tunisi la ministra dell’Industria, delle miniere e dell’energia, Fatma Thabet Chiboub, per valutare la possibilità di collaborare allo sviluppo congiunto di un progetto pilota per la produzione di idrogeno rinnovabile in Tunisia, nell’ambito dell’attuazione del Piano Mattei per l’Africa, con l’Italia quale snodo per i bisogni energetici europei. L’idrogeno è visto con interesse dall’industria automobilistica. Bmw e Toyota hanno rinnovato una partnership per sviluppare il progetto di un’auto a idrogeno con lancio dei primi veicoli già nel 2028. Inoltre, le due case si sono impegnate a contribuire nello sviluppo di una rete di rifornimento in tutt’Europa con l’obiettivo è di avere un distributore ogni 200 chilometri circa e nei principali centri urbani per un totale di oltre 600 punti di rifornimento. Stanno lavorando a vetture a idrogeno anche altre aziende come Honda e Hyundai (con la Nexo). I consumatori però rimangono scettici per il problema dei rischi connessi a questo carburante. L’idrogeno liquido che deve essere conservato a temperature sotto -253°C, vicino allo zero assoluto. Ciò comporta una serie di problemi di isolamento termico e di conservazione. Il rischio di incendi è elevato. Hyundai l’anno scorso ha richiamato la Nexo in Europa perché le auto potevano avere un problema al sistema di rilevazione delle perdite di idrogeno ed essere quindi a rischio di incendio.

Questo combustibile è entrato anche nei piani ecologici di alcune amministrazioni comunali. È il caso di Bologna che, usando fondi Pnrr, è pronta a far scendere in strada 127 autobus a idrogeno entro il 2026 - da aumentare a 157 - con l’obiettivo di avere la più grande flotta di mezzi di trasporto pubblico a idrogeno d’Europa. «Sarà una sfida farli andare. Sono costosi e bisogna creare una situazione di sicurezza» chiosa scettico, a Panorama, il presidente di Nomisma Energia, Tabarelli. E aggiunge: «L’automotive sta investendo in questo combustibile sperando di poter centrare l’obiettivo del 2035 dello stop all’endotermico, considerando che la soluzione dell’elettrico si sta rivelando fallimentare. Ma è un’altra illusione». Infine fornisce alcune statistiche illuminanti sulla domanda di auto a idrogeno: «Nel 2022 ne sono state vendute 11, nel 2023 solo due e nel 2024 zero. Chi punta su questo combustibile magari spera nelle flotte aziendali o nei bus cittadini». A conferma delle difficoltà di questo percorso, c’è la recente notizia che il gruppo Thyssen sta pensando di abbandonare la conversione delle sue acciaierie all’idrogeno, a causa degli alti costi. Il passaggio a combustibili ecosostenibili è una sfida soprattutto per il settore aereo considerato altamente inquinante. Ma anche qui non mancano i problemi. Secondo uno studio McKinsey del 2022 «con gli attuali progetti, gli aerei a idrogeno avrebbero un’autonomia limitata fino a 2.500 chilometri» che è la distanza tra Londra e Istanbul.

Destination 2050, l’alleanza europea per l’aviazione civile volta a creare un trasporto aereo a zero emissioni entro la metà del secolo, prevede che gli aerei a idrogeno saranno disponibili entro il 2035, ma solo per rotte intraeuropee a corto raggio. Ciò significa che restano escluse le tratte intercontinentali che, secondo Eurocontrol, sono responsabili di oltre il 50 per cento delle emissioni di CO2 del settore aeronautico. Poi si tratterebbe di riconvertire gli aeroporti, ora strutturati per rifornimenti con combustibili fossili, con costi ingenti. Ma c’è un ultimo risvolto ancora più preoccupante. Ammesso che si riuscisse a rendere gli aerei a zero emissioni, la fatica sarebbe inutile per il pianeta. Studi recenti dimostrano che il 50-75 per cento dell’impatto climatico dell’aviazione è causato da effetti non legati alla CO2 come le emissioni di ossido di azoto o il vapore acqueo che contribuiscono alla formazioni di scie di condensazioni. Queste specie di nuvole lasciate dagli aerei in cielo potrebbero contribuire, secondo uno studio dell’americana Environmental protection agency, al cambiamento climatico. La domanda è: tanto sforzo vale davvero la pena?

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