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Lidia Vitale: «Crisi del cinema italiano? Si ritrovi l’entusiasmo»​

L’abbiamo appena vista mamma brutale e insensibile di Maria di Nazareth, la madre di Gesù, nel film Vangelo secondo Maria, accanto a Benedetta Porcaroli e Alessandro Gassman. Con una durezza che fa quasi male. E presto Lidia Vitale sarà nell’attesa serie tv Playmen dedicata ad Adelina Tattilo, l’editrice della rivista erotica italiana che, negli anni ’60-’70 , rispondeva a Playboy.
Una vita nel cinema, ora da caratterista, ora con ruoli di donne taglienti (come la feroce mafiosa di Ti mangio il cuore) o ruvide (come la critica gastronomica di Maschile plurale), Lidia Vitale condivide la passione per la recitazione con la figlia Blu Yoshimi, a cui ha fatto da acting coach (Blu è stata la giovane protagonista di Piuma di Roan Johnson, tra i film in concorso a Venezia nel 2016).

L’intervista a Lidia Vitale diventa l’occasione per parlare di cinema a 360 gradi: dall’ambiente produttivo dei suoi esordi, tra patriarcato inconsapevole e sorrisi di consenso, ai ruoli recenti in cui il cinema si fa mezzo per scardinare pregiudizi, da gioie e delusioni della vita da attrice alla crisi del cinema italiano in corso (o forse no). Con un sogno nel cassetto: che Martin Scorsese produca un film su Anna Magnani.

Lidia, abbiamo ancora negli occhi il recente ruolo di Anna, madre di Maria in Vangelo secondo Maria. Interpreti una mamma quasi crudele, completamente assorbita dalle convenzioni sociali, l’incarnazione stessa del patriarcato. Dove hai trovato questa durezza?

«Credo che per ogni donna ci sia un momento in cui occorra farsi tante domande, partendo da noi stesse e da tutte le volte in cui abbiamo abbozzato e abbassato la testa, in cui in qualche modo abbiamo detto “Sissignore”, accennando sorrisi di consenso. Non bisogna andare lontano. Credo che in ognuna di noi ci sia questa tendenza ancora radicata ad avere paura e a sottomettersi. Sono secoli in cui questo meccanismo si ripete. Sicuramente andare in quella zona d’ombra è doloroso; d’altro canto, però, da parte mia come artista è doveroso indagarla».

Sei da anni nel mondo del cinema: questo controllo maschile lo hai visto o vissuto nella tua carriera? Se sì, oggi vedi dei cambiamenti e dei progressi nell’empowerment femminile?

«Io sono una giovane ragazza degli anni ’80. Allora il controllo maschile era abbastanza evidente ma noi non lo sapevamo. Mi vengono in mente le parole di Jane Fonda, quando al Festival di Cannes ha detto: “Ero qua nel 1963, non c'era neanche una regista donna e per noi era normale”. Per noi era normale fare i provini da sole, dentro una stanza con una persona sola, e sentirsi dire: “Adesso devi spogliarti perché il film prevede una scena di sesso”. C’era gente che tendeva a levarti la camicetta… Cose di questo tipo ne ho viste e straviste quando ho cominciato il lavoro d’attrice. Vigeva la logica “do ut des”. Per fortuna io sono una scapestrata, una ribelle per natura, ma ci sono voluti vent’anni per rinunciare anche solo ai sorrisi di consenso, con quella paura che ti attanaglia. Oggi è cambiato qualcosa? Da una parte sì, ci stiamo prendendo più spazio. Dall’altra, però, vedo che è difficile fare rete, soprattutto in Italia, tirar fuori la voce tutte insieme. C’è sempre un po' di paura sotterranea, una certa minaccia... E poi, quando fai notare alcune cose, invece di essere apprezzata perché aiuti a far vedere i fatti da un’altra prospettiva, sei considerata una rompiscatole».

A proposito di empowerment femminile, hai appena lavorato alla serie tv in post-produzione Mrs Playmen, alla regia di Riccardo Donna, con Carolina Crescentini nei panni di Adelina Tattilo, la coraggiosa editrice di stampo femminista a capo di Playmen, la rivista erotica italiana che rispondeva a Playboy negli anni ’60-’70. Ci puoi raccontare qualcosa?

«Posso raccontare molto poco perché ancora non è possibile parlarne granché. È la storia di Adelina Tattilo, che teneva le redini di Playmen e si è adoperata per trascinare la rivista fuori dalla pornografia e per farla diventare un giornale erotico. Era fine anni ’60, inizio anni ’70, i tempi della rivoluzione sessuale, un momento in cui c'è stata un'unione forte tra le donne, allora più di oggi. Con Carolina, amica di vecchia data, siamo molto felici di aver potuto lavorare insieme per la prima volta. Ecco, abbiamo fatto rete, abbiamo lavorato e costruito insieme, è stato molto bello».

Come sarà il tuo personaggio?

«Il mio personaggio si chiama Lella. Interpreto la segretaria storica di Playmen. Vede il cambiamento che si sta muovendo davanti a lei. Non è certo una rivoluzionaria ma probabilmente si ispira alla Tattilo per cominciare la sua rivoluzione».

Intanto su Prime Video è disponibile da qualche settimana Maschile plurale di Alessandro Guida, tenera commedia queer, sequel di Maschile singolare. Qui interpreti Gaia Trevis, severa e influente critica gastronomica. Ti ha fatto piacere far parte di questa produzione che inneggia ai diritti Lgbt? Che potere può avere il cinema nell’educare e nel far cadere pregiudizi?

«Oggi più che mai la settima arte è il mezzo perfetto per sottolineare ciò che va cambiato. Il cinema è un mezzo potente. Bisogna avere il coraggio di dire le cose fino in fondo. È stato bello lavorare con un cast giovane, che si è sfidato già con il primo film: Maschile singolare è stata un'operazione di sfida, per il regista e per tutto il team. La cosa che più mi piace di Maschile plurale è che parla di diritti Lgbtq+ con leggerezza ed estrema naturalezza. Racconta una storia d'amore e di riscatto, che non ha gender. Non ci sono etichette, è tutto così naturale».

Anche tua figlia è attrice, Blu Yoshimi, da poco vista ne Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti. È una cosa che vi unisce o vi divide?

«Io e Blu abbiamo un rapporto speciale, anche perché è cresciuta stando sempre al mio fianco. Ero giovanissima quando l’ho avuta: per continuare a coltivare il mio sogno d’attrice, non potevo che portarla sempre appresso. Blu dice sempre che è cresciuta a latte e Strasberg. Abbiamo una stima e una complicità pazzesca sul lavoro. Recentemente sono andata in scena con un suo testo, una rivisitazione geniale di Peter Pan, in cui interpreto Capitan Uncino. L'ha prodotto e scritto lei: con grande gioia sono stata al suo servizio. Abbiamo una grande passione condivisa e un profondo rispetto delle nostre diversità. Ma la mia vittoria principale, nel nostro rapporto, è che siamo entrambe totalmente libere. È libera anche lei da me, che non è così scontato», sorride Lidia Vitale.

Si parla spesso di crisi del cinema italiano e di sale cinematografiche vuote. Gli incassi al cinema del 2023 sono stati +62% rispetto al 2022, ma -16% rispetto alla media del triennio 2017-2019 pre-Covid. C’è stato il fenomeno Non c’è ancora domani di Cortellesi, ma di fianco ad alcuni film che ce la fanno tanti altri vengono quasi ignorati. Cosa ne pensi?

«C’è sempre stata crisi. Non c’è mai stato un periodo in cui non abbia sentito parlare di crisi del cinema. Ma l’ideogramma “crisi” significa opportunità. E bisognerebbe puntare su questo, bisognerebbe unirsi, provare coproduzioni, prendere esempio da chi ha imparato a fare un tipo di distribuzione diversa, come a Roma hanno fatto i ragazzi del cinema America, che creano serate evento, cambiano la modalità di fruizione. Anche il Cinema Troisi è sempre pieno, il cinema in piazza è affollato. Quindi è vero che la gente non va più al cinema? Forse, piuttosto, abbiamo bisogno di proporre film che attirino davvero l'attenzione del pubblico, fino in fondo. Che non siano solamente un movimento produttivo ma un movimento produttivo e creativo. Con una distribuzione che cambi i termini distributivi. Ripeto, per me la parola “crisi” significa sempre opportunità. Se pensiamo al nostro Neorealismo, la crisi successiva alla guerra è stata usata per realizzare un tipo di cinema diventato esempio nel mondo. Come direbbe Gaia Trevis, il mio personaggio in Maschile plurale, “Che hai fatto? Hai perso l'entusiasmo?”. Gli artisti e le produzioni devono ritrovare l'entusiasmo di creare. Ora farò vacanze sul lago di Garda, in cui scriverò un film insieme a un giovane regista, Francesco Puppini: c’è crisi, vado a scrivere».

Di che si tratta?

«Nel 2018 abbiamo girato un cortometraggio insieme, dal titolo Virginia. Ora abbiamo deciso di svilupparne un lungo».

Amore per il cinema: croce e delizia. Al di là dell’entusiasmo a ogni set e film a cui partecipi, quanto è difficile la carriera da attrice? Quanti provini? Tante gioie, sì, ma quante delusioni bisogna masticare?

«Tante, tantissime, ma poi, alla resa dei conti, ogni sconfitta è stata un'opportunità. L'allenamento al rifiuto è un grandissimo lavoro su di sé, perché un no non è niente di personale, è qualcosa che ti aiuta ad aggiustare i lati dell'ego. Ti aiuta a togliere il bisogno di riconoscimento dal lavoro e a metterlo al servizio del lavoro. Non è un caso che uno su mille ce la faccia in questo settore. Dico sempre che se un operaio viene pagato al mese quanto io sono pagata in un giorno deve esserci un motivo. Io non vendo il pane, vendo il pane per lo spirito. Questo è il mio dovere come artista: fare queste esplorazioni dello spirito umano e restituirle al pubblico in modo che possa fare lo stesso, possa riconoscersi, possa scoprire un pezzetto di sé insieme a me. Se ho fatto questo ho vinto. Tutti i no, tutti i rifiuti, tutti i fallimenti alla fine diventano parte di un percorso prezioso».

Avessi la bacchetta magica cosa chiederesti oggi al tuo futuro?

«Chiederei: “Senti, Martin Scorsese, per favore, produci il film su Anna Magnani negli Stati Uniti?”».

Tu hai interpretato Anna Magnani in due progetti, nel monologo teatrale Solo Anna e nella fiction Simonetta, la truccatrice della Magnani. Sogni un film americano su Anna Magnani?

«Mi piacerebbe tantissimo. Sono 19 anni che lavoro su questo personaggio e 12 che lo porto in giro per il mondo con lo spettacolo Solo Anna. Credo sia ora che si faccia un grande film internazionale su Anna Magnani, per raccontare una donna che già negli anni ’50 combatteva per le stesse cose per cui combattiamo oggi. Lottava con grandissima fatica in un business totalmente maschile».

Se un domani ciò accadesse davvero, noi dobbiamo risentirci: promesso?

«Assolutamente sì. Sarebbe davvero bello».

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