Femminismo o opportunismo? Le manifestazioni strumentalizzate e l’Onu in silenzio
Negli ultimi giorni, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, le piazze italiane si sono animate di manifestazioni a difesa della parità di genere. Ma dietro le bandiere, i cori e gli striscioni, spesso si nasconde un sottile ma innegabile gioco politico. Il femminismo, nobile causa che dovrebbe unire nella lotta per l’emancipazione e la giustizia, nel nostro Paese si trasforma ogni anno in uno strumento per obiettivi di parte, snaturandosi e perdendo credibilità.
Femminismo o opportunismo?
La domanda che sorge spontanea è: quanto di ciò che vediamo nelle piazze è realmente spinto dalla volontà di cambiare la società e quanto, invece, serve come megafono per agende partitiche? Non è raro vedere donne che, soprattutto di una certa area ideologica, cavalcano queste iniziative per rinforzare il proprio consenso, usando la retorica dei diritti come un’arma contro gli avversari politici. Si invoca la parità di genere, ma spesso solo quando è funzionale a delegittimare l’altro schieramento. Esempio emblematico sono state le manifestazioni contro il governo, accusato di misoginia o di immobilismo su tematiche di genere. Tra queste azioni, il gesto altamente simbolico di bruciare le foto di politici (Ministro Valditara ultima vittima) considerati “nemici” dei diritti delle donne. Un atto che sembra avere più a che fare con la propaganda che con una protesta realmente costruttiva.
Bruciare una foto non è solo un gesto teatrale: è un atto carico di significati. Vuole simboleggiare rabbia, disprezzo, ma anche una condanna totale. Tuttavia, quando viene utilizzato in un contesto politico, spesso perde la sua forza come strumento di denuncia per diventare un banale espediente per attirare l’attenzione mediatica. Questo non è femminismo, è spettacolo. E’ un controsenso manifestare contro la violenza, con azioni violente.
Il femminismo e il silenzio sulle donne iraniane : cause selettive o opportuniste?
Un altro fenomeno preoccupante è l’appropriazione selettiva delle cause. Infatti, si tace quando si tratta di affrontare temi scomodi come l’oppressione delle donne in regimi teocratici o in contesti culturali dove la sinistra è meno incline a intervenire, come per le donne iraniane. C’è qualcosa di profondamente inquietante nel silenzio del movimento femminista di fronte alla brutale oppressione delle donne iraniane. Mentre queste ultime lottano a costo della propria vita contro un regime teocratico che le soffoca, alcune delle voci più influenti del femminismo sembrano guardare altrove, preferendo concentrare le proprie energie su questioni meno rischiose o più vicine alla propria agenda politica.
Il coraggio delle donne iraniane è un esempio straordinario di resilienza. Si tolgono il velo in pubblico, consapevoli che questo semplice atto di ribellione potrebbe costare loro la libertà, se non la vita. Si organizzano e protestano, nonostante la repressione violenta e il pericolo costante. Eppure, questo eroismo non riceve l’attenzione che merita da chi dovrebbe, almeno in teoria, essere il primo a sostenerle.
È lecito chiedersi perché accada questo. Forse perché affrontare il tema delle donne iraniane implica mettere in discussione sistemi di potere che alcune correnti ideologiche in Occidente sono riluttanti a criticare apertamente. O forse perché è più semplice combattere battaglie contro avversari “sicuri”, che non rispondono con la violenza brutale di uno Stato totalitario.
Contraddizioni e mancanze morali
Questo silenzio è non solo una grave mancanza morale, ma anche una contraddizione insanabile. Come si può parlare di solidarietà globale, di “sorellanza” e di diritti universali, se si ignorano le donne che rischiano tutto per affermare la propria dignità in uno dei contesti più repressivi al mondo? Lottare per i diritti delle donne non dovrebbe fermarsi ai confini geografici o alle convenienze politiche. La verità è che il femminismo occidentale, se vuole essere davvero credibile, deve trovare il coraggio di affrontare anche le questioni più scomode. Deve uscire dalla sua zona di comfort e riconoscere che il suo silenzio è complicità. Le donne iraniane non hanno bisogno di gesti simbolici o di dichiarazioni vuote; hanno bisogno di solidarietà concreta, di pressione internazionale, di amplificazione delle loro voci. Continuare a ignorarle significa tradire i principi stessi del femminismo. Significa ammettere che la lotta per l’uguaglianza e la giustizia è, in fondo, subordinata a logiche politiche o culturali. Questa incoerenza mina la fiducia nelle intenzioni di chi scende in piazza e rende evidente che non sempre si tratta di una battaglia per la giustizia universale, ma di una guerra ideologica.
Il silenzio dell’Onu
Un altro esempio eclatante è il silenzio dell’Onu, o peggio, questa inattività di un organismo nato appositamente per difendere pace e diritti umani. Ed è particolarmente grave in un’epoca in cui milioni di donne in tutto il mondo continuano a essere vittime di violenza, discriminazione e oppressione. Anche nel caso delle donne iraniane, l’Onu ha mostrato una lentezza e una reticenza inaccettabili nell’affrontare la questione. Risoluzioni annacquate, riunioni interminabili e una totale mancanza di misure concrete: tutto questo dipinge un quadro di paralisi istituzionale. Ma anche dai conflitti in Africa subsahariana alla crisi afgana, le donne continuano a essere vittime di stupri di massa, matrimoni forzati e schiavitù sessuale. Eppure, l’azione delle Nazioni unite è spesso tardiva, inefficace o ostacolata da veti politici che privilegiano gli interessi degli Stati membri rispetto alla tutela dei diritti umani. Il problema non è solo l’inazione, ma anche la mancanza di coerenza, nonché un vero e proprio tradimento dei suoi stessi principi fondativi. Le donne del mondo non possono aspettare che l’Onu trovi il tempo o la volontà di agire. Hanno bisogno di un alleato forte, coerente e coraggioso.
Il femminismo non può essere una bandiera di parte
In definitiva, il femminismo non può e non deve essere una bandiera di parte. Le donne non sono uno slogan, né un campo di battaglia per lotte politiche che poco hanno a che fare con la loro vita quotidiana. La vera sfida è quella di restituire autenticità a queste battaglie, eliminando le contaminazioni di parte e promuovendo una solidarietà che vada oltre le divisioni ideologiche.
Giornalista e scrittrice*
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