Ambrogio Fogar, di nuovo intorno al mondo…
A cinquant’anni esatti dall’eccezionale solitaria intorno al mondo, durata ben 402 giorni, si susseguono le iniziative per ricordare il grande esploratore milanese. A partire dal doppio appuntamento, il 7 e l’8 dicembre, a Castiglione della Pescaia, il romantico porto canale della Maremma Grossetana, da cui Fogar partì a bordo del Surprise il 1° novembre del 1973 per ritornarvi, appunto, quattrocentodue giorni dopo, il 7 dicembre del 1974. Per proseguire con la recente ristampa del resoconto di quella celebre circumnavigazione: “400 giorni intorno al mondo” (Tea, 2024) con le prefazioni delle figlie Francesca e Rachele. Un viaggio ai limiti delle possibilità umane, alla ricerca del “senso puro dell’avventura dell’uomo che va per mare, da solo”.
Se paragonato alle imprese tecnologicamente avanzate di oggi, pur con tutti i rischi e gli imprevisti della vastità dell’ambiente marino, l’impresa di Ambrogio Fogar appare, cinquant’anni dopo, come un remake “senza filtri in mezzo agli oceani della terra e ci sembra di rivivere con lui le tempeste e le bonacce, le meraviglie e i terrori, gli incidenti e le sorprese, le esaltazioni e gli abissi di sconforto; e più ancora di condividere con lui una grande avventura spirituale”.
Milanese, classe 1941, Ambrogio Fogar ha dedicato la sua vita all’avventura in ogni sua declinazione: è stato sciatore, scalatore, paracadutista e velista. Mari, ghiacci, e deserti sono stati il suo ambiente naturale, che restituiva, di volta in volta, anche da popolarissimo conduttore televisivo di quel “Jonathan. Dimensione avventura” capace di far sognare più di una generazione. E anche quando un grave incidente durante il rally Pechino-Mosca-Parigi, il 12 settembre del 1992 nel deserto del Turkmenistan, lo condannò all’immobilità, Fogar avrebbe continuato, a suo modo, a vivere l’avventura interiore, fino alla scomparsa il 24 agosto del 2005. I suoi libri, da Messaggi in bottiglia. Da un catamarano in mezzo all’Atlantico (1976) a La zattera (1978), da Sulle tracce di Marco Polo (1983) a Verso il Polo con Armaduk (1983), da Solo. La forza di vivere (1997) a Contro vento. La mia avventura più grande (2005), narrano di una impressionante forza interiore capace di piegare anche le più ostiche avversità che gli elementi della natura gli riservavano in ogni angolo del globo. Iconica la sua affermazione dinanzi alla maestosità dell’Oceano: “Trovarmi, ecco la mia ansia: e il mezzo che ho scelto è la solitudine sul grande mare”.
Francesca Fogar, la storia dell’annuncio di quel progetto di circumnavigare il mondo in solitaria è scolpita nella sua vita di figlia…
«Fa parte nella mia vita, una sorta di cantilena da ritmo incalzante, una benedizione o una maledizione a seconda del punto di vista. La vicenda umana di mio padre non può prescindere da questo aspetto, esattamente come sono state le sue scelte di uomo, di sportivo, di esploratore, sempre pronto a soppesare le conseguenze. Questo aspetto è il preliminare del viaggio che le pagine appena ristampate ripropongono: “il racconto di sé dentro quel viaggio”, inteso come fine ultimo, l’approdo in un porto sicuro per ripartire alla volta di una nuova avventura. Non solo sul mare».
Torniamo al giorno della partenza.
«Ambrogio all’epoca aveva 32 anni, un ragazzo tra l’altro senza una consolidata esperienza: l’anno prima aveva partecipato all’Ostar, la regata solitaria dell’Oceano Atlantico, da Plymouth, in Inghilterra, a Newport, negli Stati Uniti: esperienza formativa, anche perché risulterà il nostro unico conterraneo a portare a termine la traversata. Poi nel 1973, fu protagonista nell’Atlantico del sud, da Città del Capo a Rio de Janeiro. C’è un’espressione del giornalista di vela Attilio Eolo Pratella che, forse, dà il senso di qualcosa di grande che avvenne dentro di lui: “Esploso in mare”».
Quella che prese il via da Castiglion della Pescaia, il 1° novembre del 1973 non ha però paragoni…
«Immaginiamo 37.000 miglia percorse da solo nel bel mezzo del più esteso ambiente marino del pianeta terra! Un progetto ambizioso, folle, da pazzi, appunto. Il Surprise era una barca in legno di appena 11 metri, costruita nel cantiere di Niccolò Puccinelli: le cronache di quei tempi mi restituiscono papà impegnato allo spasimo nella preparazione, slanciato per non perdere il ritmo forza-coraggio. La gente di mare della Maremma lo seguiva all’unisono in questa sua sfida: dal porto canale puntando Capo Horn -l’ “Everest dei velisti”- poi l’Australia, lo Stretto di Torres, e poi Capo di Buona Speranza. Per fare ritorno ancora a Castiglione…».
I precedenti erano assolutamente scoraggianti.
«Soltanto in quattro erano riusciti a concluderla: l’americano Joshua Slocum, l’inglese Chay Blyth e i francesi Louis Bernicot e Marcel Bardiaux. Certo, la componente del record da conquistare avrà avuto il suo peso, ma sono convinta che la sostanza dell’impresa fosse praticamente “spirituale” prima che sportiva. Non vorrei scomodare il mito di Ulisse nella formazione della sua stessa identità, nella ricerca spasmodica della “casa” come dimensione cui fare, in ogni caso, ritorno. Il resto l’ho ritrovato: solitudine, fatica, mettere alla prova mente e corpo. Un “viaggio interiore”, assolutamente difficile da capire e far capire: ritrovare sè stessi in un immenso specchio d’acqua».
Pagine intense, sospese tra la paura per l’impresa e il pathos interiore, appunto.
«Leggere il resoconto di Ambrogio, oggi come 50 anni addietro, potrà servire a trasmettere una sorta di universalità del messaggio, come se mio padre avesse voluto dire -volesse dirlo oggi…- “ciò che è capitato a me, potrebbe capitare a qualunque altro”, partendo dall’idea di considerare normale quell’impresa. Difficile da credergli, lo so, e forse proprio per questo la narrazione di quei 402 giorni si è mantenuta scarna, essenziale, aderente alla realtà, senza trionfalismi e barocchismi. Certo, non capita tutti i giorni di avere una collisione con un mercantile, di urtare una balena, di capovolgersi, di riparare falle e avarie varie. E’ difficile da spiegare tutto ciò, ne sono consapevole…».
Ha l’impressione di un viaggio senza tempo?
«Mi interessa lo spirito che guida il racconto, che affronta un viaggio non facilmente catalogabile con il metro dell’ieri, dell’oggi o del domani. Un racconto che serva a formare anche le generazioni future, così come è servito ai giovani di questo cinquantennio che l’hanno letto».
Rachele Fogar, queste pagine rappresentano un “messaggio in una bottiglia”?
«50 anni sono serviti per raccogliere quella bottiglia, aprirla e leggere il suo lungo e fantastico messaggio. E’ come se il tempo ce lo avesse consegnato intatto, come una storia che proviene da un passato senza la tecnologia oggi imperante, lasciandoci pagine piene di coraggio e curiosità. Il suo coraggio nell’affrontare una sfida di quelle dimensioni, la nostra curiosità nel leggerla».
Si è mai chiesta cosa avessero significato quei 400 giorni in solitaria?
«Eh, sempre! Evidentemente Ambrogio era dotato di una tale forza propulsiva interiore da spingerlo ad andare “oltre”, a non porsi limiti, a superare le classiche “Colonne d’Ercole”. Papà era profondamente romantico, sognatore e, ovviamente, coraggioso: anche nel dialogare con la parte più interiore di sé, con quel fanciullino perennemente ardente. E lo era da bambino, in quel confronto apparentemente impari uomo-natura, come quando a dieci anni rimase solo, nella sua tenda, tra i boschi della Val Bognanco, alle spalle di Domodossola. Alla fine, quel bambino, diventato uomo, ha illuminato la nostra storia. Scrivendola…».
Come lo descriverebbe?
«Coraggioso, costante e caparbio. Quando realizza l’impresa, tra il 1973 e il 1974, il mondo era ormai conosciuto come oggi, senza nuove terre da scoprire nè nuovi mari da solcare: Ambrogio si era messo ai comandi del Surprise per ricercare qualcosa che sapeva anche di mistico, di religioso. Nel libro, infatti, cita Sant’Agostino, con quel “Voglio cercarmi”, dove cercare “è già di per sè un trovare”. E tutto ciò senza la certezza di risultare vincitore, di tornare a casa vivo. A bordo del Surprise, attraverso le pagine di quel racconto, abbiamo navigato tutti noi».
E’ passato mezzo secolo, il mondo è cambiato…
«Direi che sono cambiati, soprattutto, i valori etici in questo lasso di tempo. Proprio il suo diario di bordo ci fa conoscere non solo la testimonianza razionale e personale di chi ha veleggiato intorno al mondo in perfetta solitudine, ma ci consegna anche lo spaccato di un mondo in cui i valori etici avevano un diverso peso specifico: valori quali spirito di abnegazione, passione, umiltà, onestà che visti con la lente d’ingrandimento di oggi sembrano arretrare di fronte alla superficialità con cui si affronta la vita ai nostri giorni. So di parlare di mio padre, ovviamente, ma questo ragionamento non conosce limiti soggettivi. Ha un valore universale».
Suo padre ha realizzato sé stesso…
«Direi che realizzando i propri sogni, ha conosciuto davvero sè stesso, in profondità, come quella dell’immenso Oceano che ha solcato su un guscio di legno di una decina di metri. Si è conosciuto nelle luci, come quelle che poteva solo immaginare da solo in mezzo all’immensità di un continente acquatico; e anche nelle ombre che lo hanno accompagnato per così tanto tempo. Ambrogio ha avuto un coraggio sovrumano e se la storia che oggi possiamo rileggere può apparire a volte ambiziosa ed egocentrica, quasi ai confini della credibilità, è proprio perchè è stata raccontata esattamente come papà l’ha vissuta».
Un diario pedagogico…
«Non so se fosse l’intento di Ambrogio: a me basta che una sola persona, oggi, dopo averlo letto, inizierà ad amare il mare come l’ha amato lui».
Può essere fiera ed orgogliosa di Ambrogio Fogar!
«E’ una consapevolezza che ho acquisito sin da subito. Quando a scuola i miei compagni mi chiedevano il lavoro di papà (domanda tra le più ingenue e abusate da sempre) rispondevo che aveva girato il mondo su una piccola barca a vela. E che lo aveva fatto da solo, sfidando i mostri marini, le onde gigantesche, senza poter parlare con nessuno per tanti giorni. Tra il riso incredulo di alcuni e lo sbigottimento misto a paura di altri, mi sentivo figlia di un eroe, e in realtà tutto quel racconto sembrava una favola anche a me, di quelle che si raccontano ai bambini per farli addormentare la sera».