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Mezzo secolo dopo, gli anni Settanta tra amnesia e mancata amnistia

L’uso ipertrofico della penalità per governare le questioni sociali attuali è figlio della legislazione di emergenza della fine degli anni ‘70. Storicizzare e superare questa concezione significa asciugare il terreno democratico da quel panico sociale che ha favorito il prosperare delle destre   Il rinvio a giudizio di alcuni ex-brigatisti ottuagenari, tra cui spicca il fondatore, Renato Curcio, per la sparatoria avvenuta alla Cascina Spiotta il 5 giugno 1975, in cui persero la vita il brigadiere D’Alfonso e la brigatista e moglie di Curcio, Mara Cagol, suscitano alcune riflessioni su amnistia storica e amnesia politica. La vicenda marcia di pari passo all’arresto, poi annullato, dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi a Buenos Aires. Giorgio Agamben, nel suo lavoro Stasis (Bollati Boringhieri, Torino, 2015), analizza il nesso che sussiste tra l’amnistia e l’amnesia. Quando si sceglie di svuotare gli eventi politici della loro valenza penale, lo si fa per dimenticare le conseguenze che questi ebbero sulla comunità che, in nome del ripristino di un minimo di convivenza civile, sceglie di non procedere nei confronti di chi viene ritenuto responsabile di disordine, sovversione, atrocità. Nel caso italiano, l’amnistia varata nel 1946 dall’allora Guardasigilli-segretario del Pci, Palmiro Togliatti, si prefigurò come un tentativo di stemperare le tensioni createsi in seguito alla dittatura fascista, alla guerra, alle vessazioni subite dalla popolazione in seguito all’occupazione nazista, con l’attiva collaborazione dei repubblichini. Si trattò di un provvedimento discusso, che consentì agli ex-fascisti di reintegrarsi nella vita civile senza rendere conto delle loro condotte, mentre la giustizia penale continuò a perseguitare i partigiani. I risentimenti, mal sopiti, continuarono a serpeggiare a lungo all’interno della nostra società. Si trattò di un’amnesia/amnistia di tipo giudiziario, ma di una vera e propria rimozione sul piano politico e sociale. In Sudafrica, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita dal primo governo post-apartheid, scelse di seguire un percorso diverso, proprio allo scopo di smussare i risentimenti che allignavano dopo oltre 40 anni di politiche attive di discriminazione razziale. I protagonisti di quella stagione decisero di accettare l’invito della Commissione parlamentare, presentandosi per ammettere e confessare le loro responsabilità in cambio dell’impunità. Si tratta, tuttora, di un caso unico, che è servito ai sudafricani per avviare un percorso di elaborazione del trauma che quella tragica esperienza politica comportò. Nel caso sudafricano, a differenza di quello italiano, ci troviamo di fronte a un approccio che si muove sul solco dell’amnesia agambeniana. Agamben, infatti, inquadra il percorso di amnesia/amnistia all’interno del processo di creazione di un equilibrio statico, che si mantiene fino all’erompere di un nuovo conflitto. In Sudafrica si è tentato di produrre la stasi del conflitto separando la sfera giudiziaria, investita dell’amnesia, da quella politica, dove l’amnistia è filtrata da un’elaborazione collettiva che tira in ballo la memoria. Non si tratta però di quella “memoria condivisa” che la destra italiana vorrebbe imporre per sminuire la Resistenza e rivalutare il Fascismo. Se in Sudafrica è stato possibile intraprendere questo percorso, è perché la minoranza boera che prosperava sotto l’apartheid ha accettato che il vecchio regime rappresentasse un’istituzione iniqua e inumana. Su questo terreno, le parti, hanno tenuto le loro posizioni e accettato di raccontarsi, senza confrontarsi. Nel caso della lotta armata che caratterizzò il panorama politico degli anni ‘70, non si riesce a raggiungere né la soluzione togliattiana, né quella sudafricana. Soprattutto, a oltre quarant’anni dalla fine di quella esperienza, non si riesce a darle una collocazione definita all’interno delle rappresentazioni collettive. Diviene necessario interrogarsi sulle ragioni che impediscono che anche in Italia, rispetto agli anni ‘70 si crei, come nel caso sudafricano, un delicato equilibrio tra memoria politica e oblio giudiziario. Innanzitutto, rispetto ai due casi summenzionati, in Italia assistiamo a una sproporzione tra le forze in campo. Dalla sinistra alla destra dello spettro politico istituzionale, tutti concordano nel demonizzare le vicende politiche dell’epoca. Se da un lato è incontestabile che il progetto portato avanti dai gruppi eversivi di estrema sinistra, in particolare nel caso delle BR, abbia prodotto conseguenze estremamente negative, dall’altro lato si rinuncia a fare chiarezza sulle cause e le conseguenze. Per esempio, si sorvola sulla repressione di piazza portata avanti dall’approvazione della legge Reale in poi, si rimuove la portata della legislazione speciale, si sorvola su esperienze giuridico-penale aberranti, come la vicenda del 7 aprile, mentre solo recentemente è affiorato il caso del cosiddetto “professor De Tormentis”, vero e proprio ideologo e tecnologo delle torture ai danni dei membri, presunti ed effettivi, delle formazioni armate. In secondo luogo, la rimozione della complessità politica degli anni ‘70, marcia di pari passo a una demonizzazione delle formazioni di estrema sinistra, armate o meno, che si articola su due piani. Il primo è quello dell’accusa di fanatismo, a partire da episodi di scontri che si conclusero con le morti di esponenti neofascisti, come il caso Ramelli o la vicenda di Acca Larenzia. Il secondo piano è quello del complottismo, che gravita attorno a una nutrita letteratura dietrologica che, sulla base di illazioni, mira a dimostrare l’esistenza di un filo diretto tra le organizzazioni eversive e centrali di potere occulte, possibilmente straniere. Si tratta di due letture che danno spazio alla destra, sia quando collocano il fanatismo a sinistra, dimenticando la ferocia e l’approccio intimidatorio e prevaricatore dei neofascisti, sia quando dipingono BR, Prima linea e altre formazioni come le quinte colonne di agenti stranieri. In quest’ultimo caso, ci si dimentica delle stragi avvenute da Piazza Fontana in poi, con le inchieste giudiziarie che hanno dimostrato l’esistenza di un certo livello di collateralità tra apparati deviati dello Stato, neofascisti italiani e stranieri, potenze estere. In altre parole, laddove in Sudafrica gli attori in campo hanno mantenuto la loro memoria, in Italia si è creata una memoria condivisa, egemonizzata dalla destra, che continua ad attribuire alla sinistra, in particolare alle formazioni più estreme, la responsabilità delle degenerazioni della politica italiana contemporanea. Un’egemonia pericolosa, che rischia di alterare il tessuto democratico del Paese. In terzo luogo, bisogna chiedersi perché gli anni ‘70 rappresentano ancora oggi il convitato di pietra della politica italiana, attorno al quale si costruiscono carriere, consensi elettorali, audience mediatiche. Un primo assaggio si ebbe con la cattura di Cesare Battisti, accolto al rientro in Italia dall’allora Ministro dell’Interno, che lo ostentò come un trofeo. Oggi assistiamo alla magistratura che istruisce un processo contro due ottuagenari, sorvolando sul fatto che già fossero stati assolti per lo stesso reato. Il fatto che la sentenza di assoluzione sia andata persa, agevola il loro compito, mentre non si fa luce sulle dinamiche della morte di Mara Cagol. Assistiamo a uno scambio di favori tra la premier e il suo nuovo alleato argentino, che aveva tentato di forzare la magistratura revocando lo status di rifugiato a una persona di 73 anni, da oltre 40 anni estraneo alle vicende della lotta armata. Perché tutti, a destra e a sinistra, pescano ancora negli anni ‘70? La risposta la si può ottenere percorrendo una strada che, focalizzando le questioni giudiziarie, parte dal contesto contemporaneo per arrivare al decennio in questione. Il securitarismo, con l’uso ipertrofico della penalità per governare le questioni sociali attuali, è figlio della legislazione di emergenza della fine degli anni ‘70. Fu allora che i conflitti sociali vennero letti come fenomeni delinquenziali, che si enfatizzò l’importanza delle forze di polizia, che si potenziò il ruolo suppletivo della magistratura. Le formazioni armate ci misero senza dubbio del loro, compiendo omicidi insensati ed efferati ai danni di esponenti dell’apparato statale, ma queste tragiche vicende rappresentarono il pretesto per promuovere un legalitarismo declinato in senso repressivo, attraverso il conferimento di un ruolo eccessivamente centrale all’apparato giudiziario-penale. La legalità a tutti i costi, sin da quegli anni, venne declinata come una questione di moralità, trasversale a tutte le classi sociali e a tutti gli interessi. Una narrazione che incrociò agevolmente quella sull’insicurezza diffusa all’inizio degli anni ‘90, finendo, in assenza di filtri politici e ideologici adeguati, per generare quel panico morale a cui hanno attinto a man basse nel corso degli anni la Lega, i 5 Stelle, Fratelli d’Italia. Uscire dagli anni ‘70 significherebbe prosciugare il terreno di coltura per queste forze, ma anche per chi, più a centro o a sinistra, o negli interstizi degli apparati di Stato, persegue pervicacemente un legalitarismo ormai esangue, che continua però a deteriorare la vita pubblica italiana. Rovesciando lo schema agambeniano, in Italia ci troviamo di fronte alla memoria (condivisa) giudiziaria, e all’oblio della politica. Sarebbe ora di assumerne consapevolezza. * Fonte: Vincenzo Scalia, Centro Riforma dello Stato

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