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Tony Effe fuori dal Capodanno romano: davvero certi testi contribuiscono alla violenza?

E’ di queste ore l’accesa polemica scaturita dalla decisione dell’amministrazione comunale di Roma di escludere Tony Effe dal concerto di capodanno per via dei testi di alcuni suoi brani considerati misogini, sessisti e portatori di incitamento alla violenza contro le donne. Una polemica che non accenna a placarsi anche per via del fatto che Mahmood e Mara Sattei, colleghi di Tony Effe, hanno deciso di disertare a loro volta la kermesse per solidarietà nei confronti dell’amico e cantante, mettendo a serio rischio l’effettivo svolgimento del concertone al Circo Massimo per via della difficoltà di reperire altri artisti di fama in sostituzione di quelli inizialmente previsti.

La questione è nota da tempo e ha riguardato anche altri rapper e trapper, ma stavolta si prevede uno strascico ancora più lungo per via del fatto che Tony Effe parteciperà al Festival di Sanremo e il direttore artistico Carlo Conti non ha intenzione di fare alcun passo indietro.

Il fatto che alcuni testi delle canzoni del rapper in questione contengano frasi sessiste è fuori discussione ma, a mio avviso, il tema è un altro. Possiamo davvero affermare che tutti i rapper e i trapper che scrivono di donne a cui mettere il collare e la museruola, di donne che si possono ordinare online come fossero hamburger e patatine per poi “festeggiare” in contesti che richiamano scene di sesso estremo in realtà inneggino e auspichino questi comportamenti o, peggio, li adottino nelle loro condotte di vita reale? Possiamo davvero affermare che simili testi contribuiscano realmente ad un aumento del fenomeno della violenza contro le donne e ad un incremento del numero dei femminicidi? O si tratta piuttosto di una fotografia della realtà che questi ragazzi hanno vissuto e cristallizzato nel degrado dei quartieri e degli ambienti da cui alcuni di loro provengono? Perché se è giusto e legittimo censurare il testo di una canzone che fotografa una situazione di degrado e violenza contro le donne, allora potrebbe essere altrettanto giusto e legittimo censurare un film o una serie tv che, in quanto forma d’arte, rappresenta scene di violenza e abusi di ogni tipo senza l’intenzione di legittimarle o esaltarle.

Allo stesso modo si potrebbe pensare di censurare un dipinto o un murale come la “Toxic Mary” di Banksy che raffigura una Madonna che allatta il bambino da una bottiglia di veleno perché potrebbe esaltare la maternità tossica o l’infanticidio.

D’altro canto, se rimaniamo in ambito musicale e immaginiamo che una canzone ritenuta un autentico capolavoro della musica italiana come “Grande, grande, grande” di Mina fosse stata scritta oggi, qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di un inno all’amore tossico di una donna che prega “l’uomo più egoista e prepotente che abbia conosciuto mai” di “non lasciarla mai più” perché anche se le fa “vivere la guerra tutti i giorni” e la fa combattere perché “la vuole sempre vinta lui”, poi ciclicamente “al momento giusto sa diventare un altro grande grande grande come nessun altro” e lei “non si ricorda più tutte le sue pene”. Praticamente il circolo narcisistico di love bombing, svalutazione, ripescaggio di un narcisista patologico di cui negli ultimi tempi si parla tanto e contro cui psicologi e psicoterapeuti hanno diffuso migliaia di pubblicazioni e video sulla manipolazione psicologica per avvertire giustamente le vittime di stare alla larga da questi soggetti.

Se il problema è la responsabilità di chi divulga queste forme di arte ignorando che il pubblico di giovanissimi ai quali si rivolge la musica rap e trap non ha gli strumenti necessari per decifrarle e codificarle, la soluzione potrebbe essere diversa dalla censura. Dato che la funzione educativa non spetta alla musica né alla pittura né tantomeno al cinema ma alle famiglie e alla scuola, è all’interno di questi contesti che si dovrebbero fornire tali strumenti. Magari utilizzando parte delle ore destinate all’insegnamento della storia dell’arte per parlare di questi temi, spiegare il ruolo della sublimazione in un’opera d’arte e la stigmatizzazione della violenza attraverso la sua rappresentazione in modo da dare una forma concreta e coinvolgente all’educazione civica e sociale di cui tanto si parla.

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