Da un bordello di Berlino arriva una lezione sulle mostruosità legislative nostrane
Chi il 13 aprile 2016 si fosse trovato a transitare dalle parti del Funkturm, ad ovest di Berlino, si sarebbe forse chiesto cosa ci facessero più di 900 (!) agenti di polizia con camionette e tenute antiterrorismo intorno all’Artemis, uno dei più grandi bordelli della Germania. La ragione: sospetta evasione fiscale, sfruttamento del lavoro nero, omesso versamento di contributi, riduzione in schiavitù.
Al termine della retata finiscono in custodia cautelare i gestori dello stabilimento, i due fratelli Simsek, e quattro impiegate. Il procuratore capo del Land, Andreas Behm, indice una conferenza stampa in cui dichiara che dalle indagini sarebbe emersa prova della commissione di diversi reati contro la persona, tra i quali lo sfruttamento della prostituzione e la riduzione in schiavitù, con modalità tipiche del crimine organizzato, spingendosi fino ad equiparare alcuni degli indagati ad Al Capone.
Poi, come per magia, già nelle primissime fasi dell’indagine le accuse cadono una dopo l’altra vittime di un quadro probatorio inconsistente, vengono revocate le misure di custodia cautelare, e il giudice competente archivia tutte le posizioni: abbiamo scherzato. In realtà, non è emersa nessuna violazione (se non altro di rilevanza penale) nella gestione dell’attività, è tutto regolare. Nel frattempo però, grazie alla verve immaginifica di Herr Behm, gli indagati si sono guadagnati una solida reputazione di gangster spietati e senza scrupoli.
I fratelli Simsek si rivolgono allora alla giustizia civile per chiedere il risarcimento del danno reputazionale derivante dalle parole del procuratore capo (oltre che dalla ingiusta privazione della libertà). Due gradi di giudizio più tardi, nel dicembre 2022, la corte d’appello di Berlino (Kammergericht) emette il verdetto definitivo: il Land viene condannato a corrispondere ai due 100.000 euro di risarcimento. Nelle motivazioni della sentenza si legge che il procuratore avrebbe fatto una serie di affermazioni pianamente false non solo in base a quanto emerso nel corso delle successive indagini, ma anche in base agli elementi probatori già noti allora.
La scelta di un linguaggio suggestivo, con cui gli indagati venivano definiti “affini ad ambienti della criminalità organizzata” o era data per “provata” la sussistenza di una tratta di esseri umani, sarebbe stata pregiudizievole e idonea a generare l’impressione che gli indagati fossero già stati riconosciuti colpevoli. In sintesi, il procuratore capo “ha deliberatamente optato per una terminologia greve e sensazionalistica della quale non esistono definizioni precise, con l’intenzione di favorire un mondo di associazioni nell’immaginazione dell’ascoltatore interessato.” La sentenza è talmente dura che il Land in un comunicato stampa annuncia che valuterà di agire in via di regresso nei confronti del procuratore capo.
Poi ad aprile scorso (un anno e mezzo dopo la sentenza) i fratelli Simsek calano l’asso che serbavano pronto nella manica: annunciano che devolveranno in beneficenza non solo il risarcimento ricevuto, ma anche altri 250.000 euro aggiunti di tasca propria da destinare alla Charité, il principale ospedale di Berlino, per la ristrutturazione del padiglione di pediatria.
Al di là del fatto di essere una storiella al tempo stesso scurrile e istruttiva, questa vicenda dovrebbe far riflettere su almeno tre aspetti delle mostruosità legislative recentemente approvate (riforma Cartabia) o in via d’approvazione in Italia (cosiddetto “emendamento Costa”):
1. Accentrare il controllo su ciò che viene comunicato alla stampa vietando ai magistrati di comunicare con i giornalisti (come prevede la riforma Cartabia) non è una garanzia. Un procuratore capo infedele al proprio dovere può causare danni come chiunque altro, con l’aggravante che non ci sarà nessun “altro” a poterlo smentire. L’esperienza e la storia insegnano che un’informazione è tanto più vera quanto più è libera di circolare. Il rimedio alla violazione dei diritti della personalità dell’indagato c’è, e non è né il bavaglio ai giornalisti, né il carcere che propongono i soliti vandali del diritto nostrani. Nei paesi civili si fa una causa per danni e la si vince.
2. Impedire la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare (come prevede l’emendamento Costa) significa che, in questo caso, la stampa si sarebbe dovuta limitare a ricostruire i fatti in base a spizzichi e bocconi raccolti qua e là, attingendo alle farneticazioni del procuratore capo e aggiungendoci magari anche farina del proprio sacco. Un ottimo risultato per l’affidabilità dell’informazione e la tutela degli indagati.
3. Infine, non sarà importante sapere che c’è un signore che ha prima disposto il dispiegamento di 900 agenti in tenuta antisommossa (pagati da tutti i contribuenti) per un’indagine rivelatasi un buco nell’acqua? Che lo stesso signore è pure riuscito “con colpa grave” a far condannare il comune di Berlino ad un risarcimento di 100.000 euro (sempre pagati dai contribuenti) e infine è stato pure premiato con l’ufficio di procuratore capo del Brandeburgo? Non sarà importante sapere tutto ciò anche a tutela degli indagati?
In altre parole, prendendo spunto dalla vicenda dell’Artemis, se il bordello c’è, è meglio che si veda.
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