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Nel nuovo libro di Luigi Nacci un addio in dieci passi

TRIESTE Luigi Nacci da tempo pratica, e racconta, il cammino lungo, quello che affatica e sfianca ma che permette di scoprire un altro modo di stare al mondo. Su strade battute dai pellegrini e sentieri solitari ha imparato trattenere solo il necessario che può stare nel peso limitato di uno zaino. La viandanza gli ha insegnato anche a conoscere la forza di sentimenti che una prova come quella poteva scatenare: paura, spaesamento, nostalgia, disillusione ma anche umiltà e allegria.

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Nel suo ultimo libro “I dieci passi dell’addio”, (Einaudi pp. 116, euro 16) recupera quell’esperienza per superare un abbandono, quello della sua compagna. Sistematica si fa allora la grammatica delle emozioni che squaderna: forte della sua creatività vagamente surreale, Nacci si colloca in uno spazio-tempo che da una parte affonda in un sentimento irrazionale, ondivago, imprevedibile come l’amore, dall’altra deve regolarsi con la logica di un apparato burocratico che alla fine di una relazione sentimentale prevede anche una seduta dal notaio.

L’incontro con questo personaggio è il termine ad quem da cui lo scrittore misura le tappe dell’intero suo rapporto, a un certo punto sorprendentemente interrotto, e certamente per causa sua. Il romanzo procede per trentuno stazioni nelle quali vengono testati i passi necessari al superamento di questa situazione dolorosa non solo per loro due, ma anche per l’intera rete parentale che li ha avviluppati, rassicurante e soffocante al tempo stesso.

La narrazione procede verso un obiettivo irrinunciabile, quello di mantenere in qualche modo vivo l’amore che li aveva uniti e che, pur sotto altre forme, deve poter resistere nel tempo; ma senza per questo rinunciare al proprio karma, pena il lasciarsi incapsulare in una vita che allora scorrerebbe falsa.

Che fare? Intanto cambiare i nomi degli ambienti di una casa dove non si vive più in coppia, divenuta in breve un bivacco pieno di scatoloni: non è più possibile definire matrimoniale la stanza dove si dorme da soli, sempre che si riesca a dormire. Così come è imprescindibile fare pace con tutti gli oggetti che ora devono rapportarsi solo con uno dei due: con i mestoli, con gli stracci, con i barattoli. Ma anche con i battiscopa, con i tubi del gas, con le maniglie, e con le porte. Naturalmente la lista degli arnesi è debordante, abbraccia tutte le circostanze del vivere, ed è gonfiata all’inverosimile dall’idea ossessiva di non dimenticare nessun particolare, quasi fosse possibile far sopravvivere quell’amore anche solo per accumulo di memoria.

Particolarmente duro è il catalogo dei pianti, piuttosto frequenti in una storia che finisce: il più doloroso sembra essere quello che scoppia al risveglio, perché se una persona piange appena apre gli occhi significa che ha perso ogni speranza. Il narratore sa bene che, così facendo, corre il rischio di perdersi nel labirinto generato dalla molteplicità incontrollabile delle situazioni vissute e di quelle avrebbero potuto verificarsi.

Si dispone allora a bruciare l’intero inventario per provare, piuttosto, a cambiare se stesso: se la casa è diventata un bivacco, non gli resta che farsi viandante. E qui si infittisce la trama memoriale di una storia che vede i due protagonisti, fino a quel momento perfettamente sodali, reagire diversamente in quella che è la classica prova iniziatica, qui tutt’altro che metaforica, l’attraversamento del bosco in una giornata tempestosa: ci si può sentire bene o aver paura, continuare verso la cima, magari fuori sentiero, o cercare la via breve che riconduca sulla strada maestra. Il viandante non può scegliere, sente di doversi abbandonare alla propria natura e confondersi con gli alberi, le volpi, i tassi, gli orsi. Invece, per sostenere lei, è sceso lungo la via segnata.

Ha sbagliato qualcosa. Avviandosi dunque all’addio, vuole restituire forza a quell’amore elencando e ricordando le cose belle che lei gli ha lasciato, quelle essenziali, prima fra tutte il sorriso che ha illuminato sempre ogni persona su cui il suo sguardo si posava. Così la loro storia potrebbe prolungarsi nel tempo, magari metamorfizzandosi in altre forme e in altri spazi, con protagonisti che si sentono finalmente liberi di farsi «sbalzare dalla vita, perdere l’orientamento, custodire le ferite come ostie, ballare e piangere».

Certo, in un momento come questo, dominato da un individualismo spinto, è senza dubbio un messaggio coraggioso indicare nell’amore la bussola che potrebbe guidare ciascuno di noi, notaio incluso. Di più, Nacci, andando oltre ogni logica amministrativa, afferma con forza che l’amore dovrebbe essere qualcosa che si insegna a scuola, che bisognerebbe istituire pure un ministero della compassione cui potersi rivolgere per congedi dedicati a far visita agli amanti afflitti. Solo continuando ad amare, infatti, si può guarire.

In un finale onirico, maestosamente rasserenante anche lei, che è stata ferita, potrà infine planare con dolcezza sui giunchi, salutare la salicornia, essere festeggiata da falchi pescatori e dalle nutrie che in suo onore sventoleranno collane di alghe. Potrà infine atterrare: «Farai nove passi, al decimo passo ti fermerai. Ti guarderai intorno, alzerai una gamba, chiuderai gli occhi, li riaprirai».

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