EuroGiorgia
Gli i scornati socialisti e i sedicenti liberali non si danno pace. Com’è venuto in mente a quei buzzurri di votare a destra? Che diamine, avevano già definito ogni strapuntino, con un’unica accortezza: tenere fuori gli odiati conservatori di Giorgia Meloni, la premier italiana. Invece, niente. Tutto a ramengo. Maledetto popolino. L’ultima tornata europea è stata un massacro. Il presidente francese, Emmanuel Macron, costretto a indire perigliose elezioni. Il compare tedesco, Olaf Scholz, a un passo dal baratro. La stampella dei Verdi pericolante. E il green deal bocciato senza appello dai cittadini, stufi marci del dirigismo che impone case super efficienti e auto elettriche.
I villanotti si sono rivoltati contro gli immarcescibili potentati. Così, il riflesso pavloviano dei due leader in disarmo diventa il motto dell’ex capo della procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli: «Resistere, resistere, resistere». Contro l’invasor, personificato dalla straripante Meloni. Ma l’arrocco rischia di essere ancor più controproducente. È lo sfregio della volontà popolare. Gli stremati elettori vanno a destra? Barra dritta verso il passato. Ursula von der Leyen sarà probabilmente riconfermata alla guida della commissione. Ma promette quel realismo sulla transizione ecologica che socialisti, liberali e verdi non contemplano. A parole, temono il supposto estremismo dei conservatori. In realtà, il terrore è un altro: perdere il residuale potere. Lo testimonia, anche in Italia, la foga con cui i giornali progressisti seguono la disfida europea, sempre relegata in secondo piano. Compresa l’enfasi data alle maldestre sparate di Macron e Scholz.
Il momento, per Giorgia, è propizio. L’asse franco-tedesco, che ha determinato i destini europei, s’è frantumato. Il Parlamento transalpino, il prossimo 7 luglio, finirà nelle mani del Rassemblement national di Marine Le Pen, con cui la premier italiana ha riallacciato proficue relazioni. A Berlino si dovrebbe votare l’anno prossimo, ma il cancelliere potrebbe gettare la spugna in anticipo. AfD, l’ultradestra, supera ormai i suoi socialdemocratici. La Cdu-Csu, che si mantiene attorno al 30 per cento, deve adeguarsi. Anche questo condiziona la posizione dei democristiani tedeschi in Europa, dove sono la delegazione più numerosa e influente. Difatti Manfred Weber, capogruppo teutonico del Ppe, da tempo predica l’allargamento ai conservatori: «I cittadini vogliono l’Ue di centrodestra». Al suo fianco, ancor più risoluto, c’è un vecchio amico: l’ex presidente dell’europarlamento. Ovvero Antonio Tajani: fedele vicepremier, ministro degli Esteri e capo della rediviva Forza Italia.
Non andranno alle urne solo Francia e Germania. Il 29 settembre ci saranno le elezioni in Austria. Nella recente tornata ha trionfato il partito di destra che fu di Jörg Haider, la Fpö. Conclusione: nel giro di un anno, i governi di sinistra resterebbero una manciata. Vedi la Spagna, dove rivive la coalizione Frankenstein del socialista Pedro Sanchez. O la Polonia, dove Donald Tusk è costretto a larghe intese. Insomma, Europa tutta a destra. E Bruxelles granducato delle élite. Con Meloni destinata, comunque vada la battaglia delle poltrone, a diventare la Lady di ferro continentale. Come lo fu, con le enormi differenze del caso, l’ex cancelliera: Angela Merkel.
Nonostante gli avversari abbiano tentato di insozzarlo, il G7 di Borgo Egnazia segna l’inizio della scalata. Polemicucce a parte, Meloni ne esce trionfante. Il summit pugliese sarà ricordato anche dagli accesi detrattori: è il primo a cui ha partecipato il Papa, che certamente avrà apprezzato il cerchiobottismo sull’aborto, pretesto usato da Macron per tentare di rialzare la cresta. Il Pontefice, nella sua visita, non si limita a saluti di circostanza. È protagonista di bilaterali con i leader. Tema dirimente al centro dei colloqui: la pace in Ucraina. Del resto, Meloni ha trovato da tempo una solida sponda Oltretevere, soprattutto quella più sensibile ai temi etici, compresi eutanasia e ideologia gender. Gli indispensabili rapporti con la Santa Sede passano dall’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio della Nuova evangelizzazione, e dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato Vaticano. Una vicinanza che, chiaramente, diventa strategica anche nelle relazioni internazionali. E continua a essere coltivata con cura dal sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano.
L’altro primato del G7 pugliese è l’allargamento del «club dei grandi» ad altri Paesi: India, Brasile, Sudafrica, Argentina e Turchia. Leader con cui c’è una buona intesa, destinata a rafforzarsi. E pure con i sei, a parte il galletto francese e l’ologramma tedesco, i rapporti sembrano eccellenti. «My friend Giorgia, persona fantastica» dice Rishi Sunak, primo ministro inglese. Insieme, sanciscono l’impegno per gestire le migrazioni e combattere i trafficanti. Fumio Kishida, premier giapponese e presidente uscente del G7, apprezza invece l’attenzione alla sicurezza dell’Indo-Pacifico. E Joe Biden, traballante presidente americano, elogia il «fermo sostegno dell’Italia all’Ucraina». La premier riesce a far passare persino il Piano Mattei in Africa, da integrare ai progetti statunitensi per le infrastrutture nel sud del Mondo. E adesso cercherà di far diventare l’ambizioso progetto anche un cardine della politica europea.
Intanto, fervono i preparativi per l’attesa visita di luglio a Pechino. Il compito è titanico: allentare le tensioni con la Cina, ma far valere i timori per l’industria continentale. Esemplificati dall’ultima mossa dell’Ue, che annuncia sostanziosi dazi sulle importazioni di elettriche, viste le sovvenzioni del governo di Xi Jinping. Già, sempre a Bruxelles si torna. Oltre alla presidenza della commissione, dovrà essere eletto il nuovo presidente del Parlamento. Pure in questo caso, si punta a una riconferma: la maltese Roberta Metsola, eletta la prima volta con i voti dei conservatori. Un appoggio che ha finito per rinsaldare, in questi anni, le relazioni. Si potrebbe replicare con Ursula, anche lei del Ppe. Come ha fatto nel 2019 il Pis, strettissimo alleato di Fratelli d’Italia, guidato dall’allora premier Mateusz Morawiecki: fu decisivo per la risicata elezione di Von der Leyen, impallinata dai suoi.
Meloni non vorrebbe entrare in maggioranza. Del resto, la coabitazione con socialisti e liberali sarebbe problematica. Spera piuttosto in pacifici e proficui rapporti con la nuova commissione. «Nell’interesse dell’Italia» ripetono i suoi alfieri a Bruxelles. Per cercare di mitigare, innanzitutto, il deleterio ecofurore, personificato dallo spodestato sciamano verde, Frans Timmermans, fu commissario alla Transizione ecologica. Case, auto, imballaggi, agricoltura, emissioni: meno intransigenza, maggior realismo. Quello che è già successo negli ultimi mesi, tra l’altro. Quando i popolari si sono trovati a votare con i conservatori, piuttosto che con gli eterni compari socialisti.
Ursula concorda. I franchi tiratori potrebbero tentare di sabotare, ancora una volta, la sua nomina. E le geometrie variabili renderebbero comunque accidentato il prosieguo. Cinque anni fa, i Verdi offrirono appoggio in cambio di talebanesimo green. La recente scoppola, però, li ridimensiona. In compenso, i conservatori diventano il terzo gruppo nell’europarlamento: nella scorsa legislatura erano solo il sesto. Impossibile fischiettare mani in tasca, viste anche le recenti convergenze con i popolari. «A differenza di altri, siamo per soluzioni pragmatiche e non ideologiche» giura Von der Leyen. «Gli altri»: i Verdi in versione gretina e i seguaci rossi del profeta Frans. Certo, la coerenza non è virtù in voga a Bruxelles. Ma il voltafaccia, stavolta, sarebbe smaccato.
Gli incuranti Emmanuel e Olaf, però, frenano. Anzi, dileggiano. Conservatori uguali estremisti, altroché. Dal giorno in cui la detestata Giorgia è a Palazzo Chigi, cercano di terrorizzare i naviganti: l’onda nera avanza. Come d’altronde tenta di fare scompostamente il centro sinistra italiano. Mal gliene incoglie. Meloni, alle ultime europee, è il primo ministro più votato. Mentre gli avversari incassano sganassoni. Ma quel veto può diventare l’eterogenesi dei fini. A Bruxelles cresce un esercito di oppositori, armati fino ai denti e battaglieri. Conviene davvero all’armata Brancaleone franco-tedesca? Il sofisticato Emmanuel rischia la fine del ruspante Peppe er pantera. Che, nell’Audace colpo dei soliti ignoti, dispera: «M’hanno rimasto solo, ‘sti quattro cornuti».