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L’Italia dei “signorsì” ai caminetti Ue è «fi-ni-ta». Per Giorgia l’Europa è una questione di qualità

Non stupisce l’atteggiamento isterico e incoerente delle opposizioni – e del Pd in particolare – nei confronti della decisione di Giorgia Meloni di dire un «no» di sostanza, nel metodo e nel merito, al “caminetto esclusivo” che ha deciso i top jobs europei prima ancora di sedersi nel Consiglio europeo. Per un partito, quello guidato […]

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Non stupisce l’atteggiamento isterico e incoerente delle opposizioni – e del Pd in particolare – nei confronti della decisione di Giorgia Meloni di dire un «no» di sostanza, nel metodo e nel merito, al “caminetto esclusivo” che ha deciso i top jobs europei prima ancora di sedersi nel Consiglio europeo. Per un partito, quello guidato oggi da Elly Schlein, abituato a governare senza mai vincere un’elezione può sembrare “bizzarra”, infatti, l’idea di chi applica nella realtà effettuale tutto ciò che ha assicurato in campagna elettorale: la richiesta, reiterata alla luce del responso delle urne, del cambio di approccio e di agenda senza il quale l’Ue è destinata a restare schiacciata nel Grande gioco dei nuovi/vecchi imperi.

«Ma non era mai successo prima», «L’Italia isolata in Europa», obietta scandalizzato il commentatore unico – il soccorso rosso redazionale – a proposito del «sì» che i governi italiani hanno assicurato a tutte le Commissioni di Bruxelles fin dalla notte dei tempi. Rispondiamo volentieri all’obiezione: si è visto con quali “grandi risultati”, in effetti, per l’Italia ma anche per la stessa comunità europea. Con i “signorsì” si è dato spago, soprattutto da Maastricht in poi, a diversi fenomeni: il rafforzamento della casta burocratica e autoreferenziale di stanza a Bruxelles; l’espansione ipertrofica degli egoismi dell’asse franco-tedesco; la conseguente disaffezione, quando non profonda avversione, delle opinioni pubbliche nazionali nei confronti del progetto comunitario. Un vero successo…

La proposta di Giorgia Meloni allora, per ciò che riguarda il metodo e il merito, è proprio questa: spezzare l’Europa dei club e dei circoletti, per re-innestare il principio comunitario e cooperativo figlio legittimo dei Trattati. Un principio rivisto e corretto ai nuovi e stringenti scenari internazionali: che richiedono un’Europa interventista sullo scacchiere geopolitico e non sullo stile di vita dei suoi cittadini e delle sue imprese. Su questo fronte, già nell’ultima fase della Commissione Ursula e grazie proprio alla vivace pressione del governo italiano, qualche timido segnale c’è stato: tutto l’opposto dell’agenda rosso-verde del Green Deal, dell’austerità liberale e del dirigismo sospinto dagli esecutivi del centro-nord.

L’idea allora di ripartire esattamente dalla stessa casella d’inizio, dall’intesa Ppe, Pse e Liberali (con gli ultimi due grandi sconfitti nelle urne), con l’aggravante di voler cordonare i Conservatori (co-vincitori insieme al Ppe) e legare l’Italia e la sua premier a un pacchetto già chiuso dalle due anatre zoppe (Emmanuel Macron ed Olaf Scholz), è stata rispedita al mittente. Non per orgoglio ma per precisa responsabilità, perché quell’intesa politicamente non è rappresentativa del responso delle urne. Sia nell’equilibrio delle forze, Ecr è ufficialmente il terzo partito europeo, sia nella proiezione dei governi nel prossimo Europarlamento, con l’esecutivo Meloni unico fra i grandi a uscire promosso dai cittadini.

Al di là della narrazione terrorizzante di certa stampa italiana (l’Italia avrà tutto ciò che le spetta nella prossima Commissione: e ciò conviene, eccome se conviene, a tutti i partner. Messaggio già recapitato, in queste ore, al presidente francese…), la realtà è che non si è trattato di un gesto di forza da parte di socialisti, liberali e di una frangia del Ppe. Tutt’altro: si è trattato del colpo di coda disperato di una stagione politicamente sepolta. L’inizio ufficiale della nuova, infatti, è datato il 18 luglio prossimo: quando la presunta Grosse Koalition dovrà provare a far valere i suoi numeri risicati (399 deputati zeppi di franchi tiratori, altro che trionfo) per la rielezione di Ursula von der Leyen. È chiaro anche agli stolti che le alternative saranno due: rivolgersi ufficialmente ai Verdi, con la conseguente reazione furiosa delle opinioni pubbliche nazionali nei confronti di chi consegnerà le rispettive economie nelle mani dell’elettrico cinese. O chiedere il sostegno a Giorgia Meloni e alla sua agenda: ossia ciò che corrisponde al mandato popolare, maggioritario ben oltre le già trionfanti destre europee, al di là delle geometrie a porte chiuse.

Ma anche qui per la leader di FdI-Ecr sarà una «questione di qualità»: dettata sulle cose da fare, sui programmi. Dossier su dossier. Con in più il portato del voto di Francia e dell’onda blue Marine, dove è più che probabile la certificazione del crollo del macronismo e il relativo cambio di passo, alimentato proprio da ciò che è avvenuto in Italia dalle Politiche del 2022. È chiaro che questo fa paura, molta paura, ai fautori dello status quo rifugiati nei caminetti e nelle conventicole. Sostenuti spudoratamente dalla sinistra di casa nostra che – in pura modalità anti-nazionale – ha invocato l’arco costituzionale nei confronti di Meloni salvo poi, con sprezzo del ridicolo rivelatore della profonda distonia con il sentire popolare, rimproverare a quest’ultima di non essersi accodata alle modalità e all’agenda dell’establishment.

Morale della storia? Giorgia Meloni non ci sta a vivacchiare mentre tutto il mondo corre. Lo ha detto qualche settimana fa: o la va o la spacca. Vale in Italia e per l’Italia. Vale in Europa e per l’Europa.

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