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Massimo Boldi si racconta: «Sono mezzo furlan io!»

«Sono mezzo furlan io!». Lo dice con accento perfetto ed estremo orgoglio Massimo Boldi, ricordando che suo padre Mario era originario di Tarcento, dove l’attore spesso da bambino si recava per trovare il nonno “Barba”, Pietro Boldi.

Lo abbiamo incontrato venerdì sera a Farra di Soligo, nel trevigiano, dove ha ricevuto il “Premio alla carriera cinematografica” per la prima edizione dei “Venerdì in Villa” a Villa Soligo, che con lui ha voluto inaugurare un ritorno al glamour degli anni Ottanta, quando ospitava il centro benessere Masseguè ed era frequentata da divi del calibro di Marcello Mastroianni e Sophia Loren.

E divo lo è, a suo modo, pure Massimo Boldi, sia nella forma, è arrivato in una Porsche rossa, cappello di paglia a tesa larga e occhialini alla John Lennon, sia nella sostanza, inserito a pieno titolo nella Treccani tra i protagonisti della storia dello spettacolo italiano: 67 film, 10 serie tivù, 30 programmi televisivi, due album musicali, per una carriera di 60 anni su 78 di vita.

Boldi, le radici della sua famiglia sono friulane, che ricordi ha di questa terra?

«Qui avevo tanti parenti, che con il tempo se ne sono andati e da molto non torno in queste zone, però ho ricordi bellissimi.

Mi sento profondamente legato al Friuli, una regione meravigliosa per i luoghi e per le persone, ho nel cuore tutti i miei zii, nipoti e pronipoti, eravamo una vera famiglia allargata».

Che cos’è della friulanità che si porta dentro?

«Per me è stato un esempio mio nonno “Barba”, un uomo straordinario, carismatico, quasi leggendario, faceva i mattoni in giro per l’Europa, e quando ritornava, dopo un anno, faceva un figlio: alla fine ne ha avuti 13.

Il nonno “Barba” parlava 5 lingue, che per l’epoca era un primato.

Un uomo che si dava da fare insomma, come si è dato da fare lei nella sua carriera?

«Sicuramente l’impegno, la determinazione, il “darsi da fare” mi arriva anche da lui, d'altronde vengo dalla gavetta: sono stato vetrinista, venditore, e poi batterista che avevo vent’anni.

Attore lo sono diventato un po’ per caso: esibendomi al Derby Club di Milano col mio gruppo, ho conosciuto Paolo Villaggio, Cochi e Renato, Enzo Jannacci, che ad un certo punto mi chiesero di lavorare con loro nel cabaret, era il 1974 e sono passati 50 anni.

Poi è arrivato il successo con i cinepanettoni…

«Ho sempre fatto cinema commerciale e lo rivendico con fierezza perché è un cinema popolare, che da un lato piace al pubblico e dall’altro crea indotto, è un’industria che fa lavorare molta gente, fa guadagnare e produce ricchezza.

Nel 1996 ho recitato in “Festival”, film di Pupi Avati, drammaticissimo, applauditissimo alla mostra del cinema di Venezia, ma poi non è andato a vederlo nessuno, mentre i cinepanettoni sono andati a vederli tutti. Merito anche di Christian De Sica, con cui, sottolineo, non ho mai litigato».

Lo stesso sodalizio che in televisione c’è stato con Teo Teocoli: lei preferisce il grande o il piccolo schermo?

«Io amo fare spettacolo, sempre e ovunque. La differenza è che, mentre la televisione ti cristallizza in un personaggio, il cinema ti dà modo di evolverti, di esprimerti anche con il passare del tempo, ho fatto il trentenne, il quarantenne, il cinquantenne, e adesso devo fare il nonno.

Nel prossimo film, che uscirà a Natale, interpreto il protagonista che sta andando in pensione: da un lato è contento e dall’altro no, perché invecchia, ma vuole continuare a divertirsi!»

Ce l’ha ancora un sogno nel cassetto?

«Non l’ho mai avuto perché ho sempre fatto quello che mi piaceva, e forse è proprio questo il segreto del successo».

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