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Dibattito Biden-Trump: quella che è vecchia e davvero decrepita è la democrazia Usa

Che cosa è davvero andato in scena, giovedì notte ad Atlanta, negli studi televisivi della Cnn? La prima risposta è, ovviamente, quella che, tra lacrime di sconforto o grida di gioia, già si è potuta leggere un po’ dovunque in queste ultime ore. Il primo (e forse ultimo) dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump si è risolto in una catastrofica disfatta per il primo e, conseguentemente, in un totale (qualcuno addirittura pensa definitivo) trionfo per il secondo. Biden è, fin dalle primissime battute, apparso vecchio e fragile, a tratti poco più (o poco meno) d’una spettrale riproduzione della caricatura di vecchio demente che la propaganda repubblicana va di lui diffondendo da, in pratica, ancor prima che mettesse piede alla Casa Bianca.

Nessuno, da quando nel 1960, John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon s’erano per la prima volta esibiti in diretta di fronte alle telecamere, aveva recitato tanto pateticamente male la sua parte. Ed in questo contesto, considerata non solo l’assoluta evanescenza del rivale, ma anche – per previo accordo tra i “dibattenti” – l’assenza di qualsivoglia forma di istantaneo “fact-checking” da parte dei due moderatori, Trump ha potuto, in lungo e in largo, fare e dire quello che più gli aggradava. Calcisticamente, non v’è dubbio alcuno, s’è trattato d’un 5-0, una sorta di “manita” politico-elettorale.

Giusto, ma incompleto. Ed incompleto perché l’impietosa esibizione della decrepitezza dell’ottantunenne Joe Biden non è in realtà stata che un aspetto – e non il più rilevante – dello spettacolo di Atlanta. In gioco c’era – ed ovviamente continua ad esserci – molto di più e di molto peggio. Che cosa?

Per arrivare al dunque mi permetto – contando sul perdono dei lettori – di ricorrere ad un personale ricordo: quello del giorno in cui, più o meno alla metà degli ormai lontanissimi anni 50, per la prima volta mi toccò, da adolescente, incontrarmi con la vecchiaia. Mi spiego. In famiglia di vecchio, anzi, di anagraficamente vecchia, non c’era che nonna Pia (che Dio l’abbia in gloria), energica ebrea errante che era anche, e di gran lunga, l’elemento più giovanilmente vivace (ed autoritario) del gruppo. Sicché col problema mi potei confrontare solo quando i responsabili dell’oratorio da me frequentato, quello della parrocchia del Gesù Buon Pastore, in piazza Po, a Milano, organizzarono una recita includendomi nel cast. L’opera da rappresentare era (giusto per la cronaca) la riproduzione teatrale di quello che era allora un superclassico della letteratura infantile: I ragazzi della via Pal dell’ungherese Ferenc Molnár. Ed il debutto fu nell’unico locale disposto ad accogliere, grazie alla mediazione della gerarchia cattolica, quella sgangherata compagnia di mocciosi. Si trattava del teatrino del Pio Istituto Trivulzio, a Milano meglio noto come ¨la Baggina¨, lo storico ospizio dove finivano (e credo tuttora finiscano) i vecchi più vecchi. Più vecchi perché più poveri, perché più soli e più abbandonati.

Fu lì che conobbi la vecchiaia. Il suo inconfondibile, penetrante odore, prima di tutto. E poi le sue due versioni. C’erano vecchi silenziosi e tristi che, racchiusi in sé stessi, raccontavano d’una attesa senza speranza. E c’erano vecchi altrettanto tristi ed altrettanto vecchi, ma chiassosi, impertinenti, decrepiti goliardi che riempivano quella medesima, disperata attesa raccontando barzellette sporche e molestando le infermiere con grevi commenti d’ogni tipo.

Alla fine, mi ricordo, vinse la goliardia. Accadde nel corso della scena che, nelle intenzioni, doveva essere la più tragica della recita, quella in cui il giovane eroe della storia, Nemecsek, muore tra le braccia della madre (per l’occasione interpretata da una suora). Fu allora che dalla platea si levò, in stentoreo coro, il suono d’una canzone degli anni 20 – La spagnola sa amar così – diventata poi un classico del “liscio”. La prescelta dagli stagionati spettatori era, ripetuta in continuazione, la più “audace” delle sue strofe, quella che fa “Nell’estasi d’amor/ la spagnola sa amar così / bocca a bocca la notte e il dì”. Poi seguirono anche alcune classiche “osterie”, ma il ricordo può, per carità di patria, tranquillamente chiudersi qui.

Ecco, per quanto bizzarro possa apparire, io questo ho rivisto nel dibattito di giovedì: la vecchiaia in tutte le sue forme. Quella triste e malandata dell’ottantunenne Biden e quella sguaiata, fracassona e tronfia del settantottenne Donald Trump. E se ascoltando – o non riuscendo ad ascoltare – quel che Biden ha invano cercato di dire ho risentito l’odore acre ed il silenzio di quel giorno, quando è stato il turno di Trump m’è sembrato – mentre nell’aria si diffondeva un ancor più molesto tanfo di vecchiume – di riascoltare “nell’estasi d’amor…”.

A dibattito concluso, è infine arrivato il “fact-checking”. E le frottole raccontate da Trump nei suoi circa 40 minuti di dissertazioni erano, a seconda dei calcolatori. tra le 35 e le 45. Una al minuto, grossomodo, Alcune erano nuove frottole, altre vecchie come il cucco. Tutte, in ogni caso, trumpianamente grossolane. La più oltraggiosa? Quella con la quale ha accusato l’allora speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, d’esser la vera responsabile dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. La più ridicola? Quella in cui è tornato a magnificare il suo acume intellettuale, per aver a suo tempo superato a pieni voti – “I aced it” – il Montreal Cognitive Assesment, una prova nella quale il paziente è chiamato a distinguere tra un elefante e una zebra, nonché a risolvere impervi calcoli del tipo: quanto fa 100 meno 7? (interessante, a tal proposito, il commento, a dibattito concluso, di un noto psichiatra: “Se qualcuno pensa che il superamento del MCA sia una prova d’acume intellettivo è molto probabile che soffra di demenza senile”).

In sostanza, quello che davvero è andato in scena giovedì notte è, tra Biden e Trump, l’ormai putrescente inadeguatezza del sistema politico o, più correttamente, della democrazia di un paese che, pure, resta economicamente, socialmente, culturalmente e militarmente all’avanguardia. Un paese a suo modo “indispensabile”, ma oggi costretto a scegliere – nel contesto di sistema elettorale grottescamente obsoleto – tra due candidati che, entrambi assolutamente impopolari (sia pur per molto differenti ragioni), sono opposte ma speculari immagini di decrepitezza. Il dibattito ci ha detto – volendo tornare alle metaforiche memorie della “Baggina” – che il prossimo novembre gli Usa torneranno, con ogni probabilità, a cantare “nell’estasi d’amor..”. Non so a voi. Ma me la cosa fa paura. Molta paura.

P.S. Nel caso a qualcuno interessasse. La rappresentazione de I ragazzi della via Pal, fu comunque considerata, dagli ospiti della Baggina, un grande successo. E per questo meritano – ovunque si trovino ora – eterna riconoscenza.

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