Autonomia Differenziata, lo «stress test» che fa bene alla politica
Secondo i detrattori della riforma sull'autonomia regionale differenziata verrebbe di fatto smantellato il Servizio sanitario nazionale, dando vita a un’assistenza diversa a seconda della regione in cui si abita. Non è vero. Ecco perché.
Ho provato a mettere in fila le obiezioni di quanti dicono no all’autonomia regionale differenziata, varata la scorsa settimana, cercando di capire se le preoccupazioni siano fondate. Cominciamo con la principale, ovvero l’accusa di spaccare l’Italia. Fosse vera, la riforma sarebbe in contrasto con l’articolo 5 della Costituzione, con cui si stabilisce che l’Italia è una e indivisibile. Dunque, è evidente che non può essere così, in quanto la legge votata a maggioranza dal centrodestra non sarebbe stata firmata dal capo dello Stato e verrebbe immediatamente bocciata dalla Consulta. Certo, raccontare che l’autonomia disgrega il Paese è un argomento che ha forte presa sull’opinione pubblica, ma nei fatti si tratta dell’applicazione di norme previste dal centrosinistra con la modifica del titolo V approvata nel 2001 e proposta durante i governi Conte e Draghi dallo stesso Pd. Insomma, nessuna divisione dell’Italia, semmai un ampio decentramento amministrativo, come appunto è previsto dall’articolo 5 della Carta su cui si fonda la nostra Repubblica.
L’altro argomento forte riguarda il Sistema sanitario nazionale, che secondo i detrattori della riforma verrebbe di fatto smantellato, dando vita a un’assistenza diversa a seconda della regione in cui si abita. In realtà, già oggi la qualità delle cure e dei servizi varia in base al luogo in cui si vive. Basta dire che sui 20 grandi ospedali che attirano degenti da altre regioni, alimentando la cosiddetta mobilità sanitaria, 18 stanno al Nord o nel Centro e solo due nel Mezzogiorno. Dunque, se vogliamo parlare di disparità di trattamento nella garanzia della Salute, già ora esiste un’Italia a due velocità e l’autonomia differenziata non c’entra nulla. Ogni anno, almeno mezzo milione di italiani decidono di farsi curare lontano da casa e non perché abbiano voglia di intraprendere un viaggio, ma in quanto ritengono che alcuni ospedali li curino meglio di altri, anche se stanno a centinaia di chilometri. Chi critica l’autonomia regionale dovrebbe chiedersi perché la Lombardia sia considerata la regione con i migliori nosocomi e perché possa vantarne cinque su venti, tre dei quali in cima alla classifica.
Ulteriore obiezione: se passa la riforma, gli italiani non potranno più scegliere dove farsi curare. In altre parole, quel mezzo milione di degenti che si sposta fuori regione verrebbe costretto a restarsene a casa. Balle. Oggi la mobilità dei malati è regolata da accordi fra le Regioni, che consentono a un paziente di sottoporsi a interventi in centri di eccellenza. Le cure ricevute sono poi rimborsate dalle diverse amministrazioni in base ai tetti di remunerazione fissati. Tutto ciò non cambierà, perché l’autonomia non può (anche per ragioni costituzionali) limitare la libera circolazione dei cittadini sul territorio nazionale allo scopo di ottenere le migliori prestazioni. In pratica, si continuerà a poter usufruire dell’assistenza così come avviene oggi.
Ulteriore obiezione mossa contro il «federalismo» sanitario riguarda le retribuzioni, che potrebbero variare e consentire ad alcune regioni di attirare i migliori medici. Premesso che già oggi noi assistiamo a una fuga di dottori e infermieri, non solo verso altri ospedali nazionali, ma anche verso altri Paesi. Nel primo trimestre del 2024 (ma è lo stesso numero registrato l’anno scorso) più di mille medici e circa 500 professionisti del settore sanitario hanno scelto di espatriare, attratti da prospettive di carriera e stipendi più adeguati. I camici bianchi se ne vanno in Germania, Belgio, Gran Bretagna, Francia, ma anche in Qatar o in Arabia Saudita, perché guadagnano il doppio e sono messi in condizione di lavorare meglio. Del resto, è ovvio che un medico o un infermiere cerchino di migliorare la propria posizione. Tutto ciò indipendentemente dall’autonomia regionale. Infatti, anche ora che il federalismo sanitario non c’è, si registra una migrazione di dottori, soprattutto verso ospedali ritenuti d’eccellenza.
Quanto poi alla questione dei finanziamenti e dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, è un’altra delle paure inventate ad arte. Non è vero, come si vuole far credere, che le regioni più ricche tratterranno i soldi prodotti sul proprio territorio a scapito di quelle più povere, perché il fondo continuerà a essere alimentato dalla fiscalità generale, con riparto di tutte le risorse, comprese quelle regionali. Dopo di che, i finanziamenti saranno decisi con un accordo della Conferenza delle regioni e in assenza di un’intesa sarà lo Stato a decidere. A ogni buon conto, i livelli essenziali di assistenza (Lea) saranno garantiti in tutte le regioni, a prescindere.
Allora, vi domanderete, se tutti avranno tutto, dove sta l’autonomia? Sta nel fatto che se qualche regione riuscirà a effettuare dei risparmi potrà disporne come crede, magari migliorando i livelli di assistenza. Cioè, la sfida consisterà nel rendere più efficiente il sistema, allocando meglio le risorse. Ci riusciranno i governatori che oggi chiedono a gran voce maggiori poteri? Non lo so, ma questo spiega anche le posizioni di chi è a favore e di chi è contro. In alcune regioni ci sarà chi proverà a dimostrare di poter fare bene e in altre, soprattutto quelle dove invece che alla salute dei cittadini si bada più alle clientele, ci sarà la paura di essere giudicati per quello che si è fatto e dunque ritenuti incapaci. Un bel problema per una classe politica che tende sempre a scaricare le proprie colpe.