Il dialogo di Marco Cavallo e Matto Francesco, “aspettando Papa Bergoglio”
Dialogo di Marco Cavallo e Matto Francesco, “aspettando Papa Bergoglio”.
Un cavallo azzurro!? Mormora sorpreso. Si avvicina, lo accarezza affascinato, si commuove. Il cavallo gli soffia sulla testa e lo annusa, sente un odore familiare di luoghi che conosce bene. Gli sembra di averlo già visto questo ragazzone. Capelli bianchi e faccia da bambino. La giacchetta grigia e un po’ risicata gli ricorda tempi gloriosi, e tristi.
Come ti chiami? – dice il cavallo – Da dove vieni, cosa fai qui?
Il ragazzone, sorpreso e intimidito, con un filo di voce, quasi incredulo: il mio nome si è perduto – dice – non l’ho mai saputo e neanche i miei genitori conosco. Ricordo solo una grande stanza bianca e tanti lettini e io in uno di questi. Vedevo il soffitto bianco sopra di me e sempre facce diverse che mi sorridevano. Quando ho imparato a camminare sono uscito dallo stanzone bianco. Mi venivano le parole, parlavo. Ma nessuno mi ascoltava. Le mie parole si perdevano nel vuoto. Io ascoltavo tutto, guardavo, rubavo la vita con gli occhi. Mi piaceva guardare le figure dei libri che qualche buona signora mi regalava. Gli animali soprattutto. Conoscevo tutti i loro nomi. Con loro mi sentivo in compagnia. Qualcuno mi faceva paura. Ma i cavalli. Ah, i cavalli…che belli; che belli i cavalli !
Appena grande mi hanno mandato fuori. Fuori dall’istituto. Istituto medico psicopedagogico, si chiamava. Non avevo mai visto fuori. Non sapevo cosa fare, nulla sapevo del mondo di fuori, e così mi sono perduto, nel mondo.
E già, è proprio così – dice Marco Cavallo – il fatto è che non si può vivere senza gli altri. Non si può vivere senza storia e senza passato. E senza futuro! e così ti sei perduto?
Non sapevo cosa fare, dove andare. Si, mi sono perduto. E mi hanno portato in manicomio. Mi sono sentito di nuovo come a casa. Grandi padiglioni, cameroni con tanti letti, camici bianchi, ordine, disciplina e persone buffe, originali, strane, paurose, dolorose… nessuno ascoltava nessuno. Nessuno mi vedeva. Ma a questo ero abituato. Così ho deciso: non parlerò più. Mai più!
Nella terrazza del reparto, un gabbione dove nelle belle giornate ci lasciavano per qualche ora, eravamo in tanti a camminare su e giù, avanti e indietro. Consumavamo le scarpe e i nostri giorni. Mi piaceva stare lì. Vedevo i colombi, gli uccelli sugli alberi e i gatti.
Mi riempivo di pane le tasche della divisa grigia e, quando ci permettevano di stare nella gabbia, attraverso la rete facevo cadere il pane sul prato. I colombi arrivavano, si azzuffavano, svolazzavano. Era uno spettacolo. Dopo poco ognuno aveva un nome. Ho usato tutti i nomi degli animali che avevo imparato. Così chiamavo leone il colombo più prepotente, ippopotamo il più goffo e zebra, e scimmietta e asino e così via. Ognuno aveva un nome e rispondeva al mio richiamo.
E non c’era un colombo cavallo? – dice risentito Marco Cavallo.
Certo che c’era, – dice il ragazzone – altro che, se c’era! Era il più bello ed elegante. E poi ogni giorno arrivava un bel cavallo nero col carretto del mangiare.
Ma c’erano anche altri animali in quel parco. Le gazze, le cornacchie, gli scoiattoli e tanti gatti. Anche a loro avevo dato un nome. Si appostavano per catturare i colombi. Per mangiarli. Erano momenti di paura per me, piangevo e urlavo ai colombi che volassero via. Chiamavo i gatti e cercavo di dire loro parole buone. Mi ascoltavano. Ho cominciato a mettermi in tasca quella poca carne che di tanto in tanto ci davano, o il pesce del venerdì. Si azzuffavano, per un pezzo di carne erano capaci di sceneggiate chiassose e crudeli. Siamo diventati amici alla fine. Ora che avevano un po’ di carne non minacciavano più i colombi. Gli agguati e gli appostamenti si trasformarono presto in giochi, assai spassosi. I colombi sempre guardinghi. Si fidavano poco. Un giorno, un infermiere mi ha scoperto mentre parlavo con i gatti e ridevo. Mi ha detto: “ma, cosa fai? credi che i gatti ti ascoltino? credi di essere San Francesco?” Ha chiamato tutti gli altri infermieri e anche tutti i matti del reparto. Si sono avvicinati curiosi. “Crede di essere San Francesco, San Francesco che parla agli animali”, e tutti ridevano. Si burlavano di me: “San Francesco è venuto a trovarci! San Francesco è in mezzo a noi! Per canzonarmi tutti si sono inchinati davanti a me. Ridendo si sono messi in ginocchio e dicevano cose, parole che non capivo. Ero confuso, paralizzato, non sapevo cosa dire. Avevo le lacrime agli occhi. Ho avuto paura. Mi sembravano così strani, ridevano, urlavano come bambini cattivi. In coro mi chiamavano Fran-ces-co, Fran-ces-co, Fran-ces-co. Nessuno prima di allora mi aveva mai chiamato con un nome. Ancora non so chi sono, Marco Cavallo, ma da quel giorno il mio nome è Matto Francesco.
Marco Cavallo ora è senza parole. Un lungo silenzio. Dai, – nitrisce – salta su, vieni ti porto a vedere il mondo…
Francesco si arrampica in groppa all’enorme cavallone. Volano. Mari azzurri, montagne, città. Un bosco verde. Ride e grida a squarciagola e si stupisce della sua stessa voce. Vede le chiome degli alberi. Il mondo sottosopra. Un uccello con le ali larghe, gli vola accanto.
È un grifone – grida sorpreso e felice – è proprio come quello del libro.
Non era mai stato felice, prima d’ora. È così eccitato che più volte rischia di cadere e Marco Cavallo deve fare bizzarre evoluzioni per tenerlo in groppa. Ora stanno volando sopra una radura. Volano altissimo. Matto Francesco chiede a Marco Cavallo di scendere, gli sembra di aver visto un uomo. Si avvicinano.
Ma c’è anche il lupo! – dice Marco Cavallo. – Andiamo a salutarlo?
Si butta giù in picchiata. Francesco ora ha paura.
Il lupo è sempre un lupo – dice sottovoce. – Ho paura. Tutti gli uomini hanno paura del lupo. Con un nitrito gioioso Marco Cavallo lo prende in giro e lo rassicura. Si avvicinano ancora e vedono che l’uomo, un giovane bello con occhi azzurrissimi, parla col lupo e il lupo lo guarda, sorride e risponde alle sue parole. San Francesco! È San Francesco! nitrisce forte. Tanto forte che tutti gli uccelli del bosco smettono di cantare.
Marco Cavallo è così eccitato che quasi precipita. Conosce il mondo, e il mondo dei manicomi ancora meglio, e ride e nitrisce divertito che non riesce a fermarsi: se San Francesco avesse incontrato Kraepelin e Lombroso, pensa… e ride, ride, ride.
Anch’io – dice Matto Francesco come se avesse sentito il pensiero del cavallo – in manicomio parlavo con i gatti e i colombi… se i professoroni in camice bianco avessero incontrato San Francesco…e comincia a ridere, a ridere che non riesce a fermarsi.
E ride… Si avvicinano, toccano terra. Matto Francesco si inginocchia e piange, lacrime grandi gli bagnano la camicia, Marco Cavallo si inchina. Ora è San Francesco che ride felice. Conosce bene la loro storia! La storia di tutti i manicomi del mondo. Li benedice. Un attimo ancora e già sono in mezzo alle nuvole. In alto, in alto, in alto. ..