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Tre sinistre vive in Europa  non fanno una primavera

Tre sinistre vive in Europa 

non fanno una primavera

foto da Quotidiani locali

Tre sinistre non fanno una primavera. Anche perché – si potrebbe aggiungere – non ci sono più le mezze stagioni... Indubbiamente, però, la malandata sinistra può contare in queste settimane su alcuni segnali di vitalità quasi insperati.

Tra loro differenti, ma che convergono nell’indicazione di vigore per le forze politiche che si oppongono alla marea di destra montante in Europa e America.

Queste avvisaglie arrivano dalla Gran Bretagna, dalla Francia e pure dall’Italia.

Si può osservare, con riferimento al Regno Unito, che la probabile vittoria laburista ribadisca la legge non scritta, ma “esattissima”, per la quale l’elettorato vota ormai in prevalenza per cambiare ogni volta governo.

E questo aspetto risulta centrale, ma – a proposito di eccezioni che confermano, appunto, la regola – il buon risultato del Pd, fra europee e amministrative, nel Paese in cui il destracentro (e specie il suo partito maggioritario, FdI) si rivela molto solido, non può non venire considerato come indizio di energia, ancora insufficiente per rappresentare un’alternativa, ma testimonianza di un’effettiva presenza in campo.

Oltre che sintomo, come classicamente avviene a sinistra, del ricompattamento in chiave “anti” di fronte all’avversario – o, nella fattispecie – al nemico vero e proprio, rappresentato da una destra-destra da cui traspaiono tuttora radicalismi inquietanti.

Oppure ancora, come nel caso del trionfante Rassemblement National di Marine Le Pen, è evidente il conseguimento della dédiabolisation a fronte, tuttavia, del persistere dell’estraneità di fondo al «campo repubblicano». Precisamente come da oggetto della spericolata scommessa politica del presidente Emmanuel Macron: sebbene si tratti di un barrage (sbarramento) contro la destra meno sentito ed efficace di quello che scattava nei confronti del Front National “nella versione del padre” Jean-Marie Le Pen e restino interrogativi su quanti elettori di Ensemble e del Nouveau Front populaire accetteranno di premiare le desistenze dei rispettivi candidati, in poco tempo leader di centro e di sinistra fortemente divisi e litigiosi hanno deciso di dare vita a un’alleanza di fatto anti-Rn.

Dunque, nonostante il “bel volto” in apparenza rassicurante di Jordan Bardella, i toni più moderati e l’avanzata massiccia nei seggi conquistati, la piena istituzionalizzazione del Rassemblement risulta tutt’altro che scontata. E questo sebbene, per l’appunto, il fronte repubblicano appaia ben diverso – e assai più fragile – di quello dei decenni scorsi, come notato da vari osservatori, tra i quali l’autorevole politologo Yves Mény.

Per contro, il Labour di Keir Starmer esemplifica quella che è l’unica soluzione possibile per la sinistra al fine di rivelarsi elettoralmente competitiva sino a conseguire la vittoria: unire tutti gli orientamenti, dai più radicali ai più “centristi”, affidandosi a un leader che faccia da elemento di sintesi, dotato di un profilo riformista, e pertanto in grado di rivolgersi anche a settori di elettorato moderato.

Un’idea che, da qualche tempo, si è fatta strada anche nel gruppo dirigente di Elly Schlein, che chiede di far cadere tutti i veti reciproci.

Così, proprio nelle scorse ore, sono arrivati segnali di apertura sempre più inequivocabili da parte di Carlo Calenda e perfino di Matteo Renzi, al cui ingresso a pieno titolo nel fronte progressista si oppone, però – secondo lo schema (controproducente) ben noto –, il presidente del M5s Giuseppe Conte.

Tatticismo forse, ma di certo non il viatico più utile per costruire il già tanto invocato campo largo. Nella consapevolezza che, al di là della formula generale di un centrosinistra largo, ogni Paese fa, comunque, storia a sé, poiché ciascun partito è figlio delle culture politiche e delle storie particolari degli Stati nazionali.

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