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Fisioterapista uccisa a Roma: “Potevo essere io al suo posto”, parla la ex del killer: “L’ho convinto a costituirsi”

“Gianluca mi ha telefonato poco dopo le 14. Biascicava, mi ha detto ‘le ho sparato’ e quando ho capito ho pensato di essere finita in un incubo”. A parlare all’Adnkronos è Debora Notari, ex compagna di Gianluca Molinaro: l’operatore socio sanitario reo confesso dell’omicidio di Manuela Petrangeli, fisioterapista 51enne. Roma è sconvolta. L’ennesimo femminidio non finisce di suscitare sgomento. È stata la ex, anche lei operatrice socio sanitaria e madre della prima figlia dell’uomo, a convincere Molinaro a costituirsi alla stazione dei carabinieri di Casalotti. E qui, davanti alla Smart con la quale l’uomo ha raggiunto la vittima prima, in via degli Orseolo, e la caserma poi, racconta: “L’ho convinto io a venire dai carabinieri, lui voleva ammazzarsi. Ma ora non so che fare, mia figlia non sa niente: con lui aveva rapporti non buoni, ma un conto è un padre str… che non paga gli alimenti;un altro un padre assassino”.

La donna continua il suo racconto: “Quando ha squillato il telefono e ho visto che era lui, ho creduto avesse discusso con nostra figlia – continua Debora – . Anche noi avevamo pessimi rapporti: lo denunciai per maltrattamenti quando nostra figlia andava alle elementari: mi picchiava e lo feci arrestare. Poi però, dopo un paio di mesi in carcere, aveva fatto dei percorsi. Io sapevo che con questa donna si era lasciato ormai tre anni fa”. E poi la telefonata: “Ho risposto e lui era ubriaco, biascicava – dice Debora -. Mi ha detto che aveva sparato, che l’aveva uccisa. Non capivo, non ci volevo credere. Non riuscivo ad alzarmi. Quindi gli ho chiesto dove fosse. Ha detto che era in macchina a Selva Candida, che voleva ammazzarsi”.

“Ma io sapevo che non lo avrebbe mai fatto. A quel punto ho fatto quello che avrebbero fatto tutti: gli ho detto di andare dai carabinieri; che tutto si sarebbe risolto, che tanto lo avrebbero preso. E che sarei andata a trovarlo con nostra figlia, anche se non lo pensavo. Non so nemmeno come ho fatto a convincerlo, ma ci sono riuscita. L’ho tenuto al telefono per tutto il tempo, fino a quando non è arrivato dai carabinieri e mi ha chiesto:‘Che ci faccio col fucile?’. Voleva portarselo dietro. Gli ho detto di lasciarlo in macchina e ho attaccato solo quando mi ha passato un carabiniere e ho capito che ce l’avevo fatta”. “Mi tremavano le gambe. Potevo esserci io lì, ho pensato – va avanti Debora -. Forse la famiglia di lei aveva sottovalutato il suo passato. Adesso riesco solo a pensare a quella povera creatura rimasta sola”.

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