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Lino Guanciale, nuovo ciak a Trieste con “In the Box”

Lino Guanciale, nuovo ciak a Trieste con “In the Box”

foto da Quotidiani locali

TRIESTE Lino Guanciale tornerà presto a Trieste per una nuova avventura professionale, non solo come attore ma anche in veste di produttore: ai primi di settembre girerà in città il cortometraggio “In the Box” della regista Francesca Staasch, prodotto dalla sua società Wrong Child, fondata nel 2019. Dopo aver vissuto a lungo a Trieste per le riprese delle tre stagioni della serie Rai “La porta rossa”, il rapporto di Lino con la città non si è mai davvero interrotto: «Mi sento come un cittadino adottivo che da un po’ non tornava, e non vedeva l’ora», sorride, di passaggio con la regista per i primi sopralluoghi.

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Del resto Trieste era il luogo giusto per “In the Box”: «Quando ho visto che la Friuli Venezia Giulia Film Commission aveva aperto un bando di finanziamento, ho partecipato subito», spiega Guanciale. «Ma non si tratta solo del contributo economico: Trieste ha una potenza fotografica unica nel mettere in comunicazione esterni così forti, questo cielo, questo mare, e gli appartamenti, le “scatole” in cui viviamo. Il film parla proprio di questo. E stiamo lavorando per coinvolgere la città anche raccogliendo diverse energie del territorio», come il Centro Studi Galileo Ferraris di Trieste che ha già assicurato il suo supporto al progetto. Nel cast, oltre a Guanciale, ci saranno Sara Borsarelli, Giulia Schiavo e Pia Engleberth.

Di cosa parla “In the Box”?

«È la storia di tre solitudini che appartengono a tre generazioni ed estrazioni sociali diverse: una donna borghese che ha perduto sua figlia, un uomo meno abbiente che vive un amore finito e una ragazza che, un po’ come accade agli hikikomori, decide di chiudersi in casa e isolarsi dalla realtà. Come dice il titolo, in un certo senso queste figure sono in una scatola e non colgono la possibilità di uscirne. Ma forse siamo tutti in una scatola, dalla quale possiamo uscire solo con l’aiuto di qualcun altro. E le loro solitudini finiranno per incrociarsi».

Quali location avete già individuato?

«Oltre alla mia amatissima Melara anche la zona delle rive, e poi tra via Ginnastica, Buonarroti e Battisti: abbiamo cercato luoghi che raccontino le diverse estrazioni sociali dei personaggi, scovando anche assembramenti condominiali dove appunto possono accostarsi diverse solitudini».

Cosa può dare in più l’atmosfera di Trieste a questa storia?

«Sarà importante quando i personaggi percepiscono la presenza di un esterno. Trieste è potentemente evocativa: da diverse altezze della città inaspettatamente ti trovi a poter guardare il mare, in capo a due salite ti trovi in uno spazio più ampio, camminando sulle rive trovi una piazza bellissima adagiata sull’acqua. Il rapporto con un’apertura di sguardo, che ti costringe a buttarti fuori, arriva come una sorpresa».

Perché ha sentito l’esigenza di diventare anche produttore?

«Ho aperto la Wrong Child per coltivare fin dall’inizio i progetti che mi piacciono anche dando spazio ad autori che hanno bisogno di un canale per portare a galla visioni interessanti. È uno spazio di libertà. Ho prodotto diversi corti ma c’è l’ambizione di passare al lungo, alla serialità. È giusto mettere a servizio la visibilità che ci si è costruiti per creare nuovi spazi. E si capisce quanta fatica c’è dentro il lavoro della produzione: nonostante le difficoltà, è importante che gli indipendenti non demordano altrimenti la produzione si coagula solo attorno a chi ha i mezzi, e lo sguardo si omologa».

Nei prossimi mesi la vedremo sulla Rai nella terza stagione de “Il commissario Ricciardi” ma prima, dal 18 luglio, al cinema nel film “L’invenzione di noi due” di Corrado Ceron…

«È tratto dal romanzo di Matteo Bussola imperniato su una storia d’amore colta in due momenti: la nascita del sentimento e la sua crisi diversi anni dopo. È una specie di romanzo epistolare: il cuore della storia è uno scambio di mail che i personaggi si mandano e attraverso le quali ricostruiscono i passaggi della loro storia. Ma mentre il marito, che interpreto io, sa che sta scrivendo alla moglie, interpretata da Silvia D’Amico, lei non sa davvero a chi sta rispondendo perché lui le scrive sotto mentite spoglie. L’abbiamo girato tutto a Verona, dov’è ambientato il romanzo, con una filosofia decisamente indipendente».

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