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«Andate avanti»: il lascito morale del Papa a Trieste 

«Andate avanti»: il lascito morale del Papa a Trieste 

foto da Quotidiani locali

TRIESTE Dimostrarsi all’altezza dell’impegno richiesto dal Santo Padre, mettendo in pratica le sue parole. È il proposito che unisce, a Trieste come nel resto della regione, i protagonisti del mondo del volontariato e della solidarietà dopo l’appello all’accoglienza e all’inclusione lanciato da Papa Francesco durante la sua storica visita domenica scorsa.

Un invito accorato ad aprirsi agli ultimi, a chi soffre, dai malati agli anziani soli, dai carcerati ai migranti, dai poveri agli emarginati, per «alimentare il sogno di una nuova civiltà fondata sulla pace e sulla fraternità».

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«Nel suo messaggio c’è stato anzitutto un richiamo che non possiamo mai dimenticare, quello alla condivisione che poi si lega anche al concetto di democrazia di cui ha parlato Bergoglio: dobbiamo lavorare insieme, perché da soli non si va da nessuna parte».

Comincia da qui la riflessione di don Paolo Iannaccone, sacerdote triestino che da un anno ha raccolto l’eredità del compianto don Pierluigi Di Piazza assumendo l’incarico di presidente del centro Balducci di Zugliano.

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«Trovo molto significativo – continua don Iannaccone – che il Santo Padre abbia messo in guardia da due pericoli, ovvero la paura dell’altro e l’indifferenza. In questo io ritrovo le parole del mio predecessore Pierluigi Di Piazza che diceva sempre: “Il mio unico nemico è l’indifferenza”.

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Papa Francesco ci ha esortato a cercare il dialogo con l’altro, a non lasciarci bloccare dalla paura e dell’indifferenza. E poi il suo messaggio ci ricorda che dobbiamo sempre riconoscere Cristo negli ultimi, nei poveri, nei migranti. E non a caso ha fatto riferimento alla rotta balcanica, una nota dolente per Trieste. Non dobbiamo arrenderci alla deriva dell’esclusione».

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Per padre Giovanni La Manna, direttore della Caritas di Trieste, «il Pontefice ha rivolto un invito diretto, chiaro, chiedendo di farci carico di chi soffre, delle povertà conosciute, ma anche dei tantissimi anziani che vivendo in solitudine finiscono per perdere contatto con la società e vivere da emarginati». «Ora dobbiamo trasformare l’entusiasmo della visita, la speranza alimentata, in qualcosa di concreto, tradurre nella pratica le parole di Bergoglio – afferma il direttore dell’ente diocesano –. Il Pontefice ha riconosciuto la vocazione all’accoglienza della città, di cui conosce bene la storia, ed è consapevole di quanto i triestini possano essere disponibili e generosi. Abbiamo la responsabilità di non deluderlo. Nei giorni della Settimana sociale e anche nella domenica della visita del Papa l’impegno dei volontari e la presenza nelle piazze è stata significativa. Insomma, ci sono tutti i presupposti perché possiamo vincere la sfida lanciata dal Santo Padre».

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«In piazza Unità, quando ho sentito le parole del Papa, mi sono subito sentita chiamata in causa a livello personale e non solo per l’associazione che rappresento – premette Elena Clon, presidente della Comunità di San Martino al Campo –. Il suo è stato un appello forte, un pungolo, soprattutto per quanto riguarda la questione dell’accoglienza». «Anche perché, se guardiamo a questi ultimi mesi – osserva Clon –, in certi momenti Trieste non è sembrata così accogliente. È stato molto importante il discorso del Papà su solidarietà e democrazia. La democrazia sociale non deve avere etichette e un’associazione come la nostra ne è un esempio, visto che siamo una comunità laica, anche se fondata da un sacerdote».

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Giovanni Grandi, docente di Filosofia morale all’ateneo triestino e membro del Comitato organizzatore della Settimana sociale riflette sull’eredità che lasciano queste giornate: «Credo che nella mente dei triestini resterà a lungo l’esortazione del Papa ad aprirsi agli altri, ad accogliere, a dare aiuto a chi è in difficoltà. Importante è stato anche il richiamo alla democrazia e alla vocazione europea, di ponte verso l’Est, della città».

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Prevale invece un comprensibile pessimismo nelle parole di don Alberto De Nadai, una vita spesa per gli “ultimi”, da prete di strada, in particolare per offrire conforto ai detenuti del carcere di Gorizia. Nell’omelia in piazza Unità Francesco ha chiesto: «Perché non prendiamo a cuore la situazione dei carcerati che si eleva come un grido di angoscia?». «Sono parole bellissime, certo, e il Santo Padre è bravo, ma è la Chiesa che non è brava. E non solo la Chiesa – afferma con amarezza don Alberto –. C’è chi dovrebbe mettere in pratica quelle parole, trasformarle in fatti concreti per migliorare la situazione dei detenuti, ma poi non lo fa mai. Noi che lavoriamo in carcere siamo lasciati soli. La verità è che nessuno sembra davvero disposto ad aprire la propria porta a chi è stato dietro le sbarre, dove ancora c’è chi ci si uccide per la disperazione».

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