Libia-migranti: l’Onu condanna ma l’Italia omaggia
Pur di non far ritorno, forzato, nei lager libici preferiscono gettarsi in mare. Una situazione che definire disperata è eccedere in ottimismo. In anni e anni di analisi, report, testimonianze, Globalist ha raccontato lo Stato fallito libico, frutto di una guerra sciagurata voluta dalla Francia dell’indagato Sarkozy, della quale l’Italia è stata parte. E ancora oggi, tredici anni dopo, l’Italia sostiene signori della guerra spacciati per statisti e come tali finanziati e riveriti. L’importante è che svolgano il lavoro sporco – i respingimenti in mare – al posto nostro. Uno per tutti: il criminale di guerra e uomo forte della Cirenaica, il maresciallo – generale Khalifa Haftar.
La denuncia Onu
In Libia migranti e rifugiati continuano a essere vittime di “gravi e diffuse violazioni dei diritti umani” perpetrate su “larga scala e impunemente”, compresi casi di tortura e lavoro forzato.
È quanto ha denunciato l’Alto commissrio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, Volker Türk, davanti al Consiglio Diritti Umani Onu.
La Libia è un punto di destinazione e di transito per i migranti, che nel dicembre 2023 erano più di 706.000 nel Paese, la maggior parte dei quali entra attraverso l’Egitto, il Niger, il Sudan o il Ciad. La situazione in cui queste persone vivono è “disumanizzante” ha ribadito Türk che ha parlato di “tratta, tortura, lavoro forzato, estorsione, fame in condizioni di detenzione intollerabili. Sgomberi di massa. Vendita di esseri umani, compresi i bambini”. I migranti in Libia, ha sottolineato, sono vittime di abusi “perpetrati su larga scala, impunemente”.
Dall’aprile 2023, i servizi di sicurezza libici hanno effettuato arresti ed espulsioni di massa di migliaia di persone, comprese quelle con visti validi, mentre l’Unione europea e i suoi Stati membri esercitavano “una pressione crescente” per arginare la migrazione nel Mediterraneo. Sono la norma anche i trasferimenti dalle zone di confine ai luoghi di detenzione nella Libia occidentale, tra cui Bir el-Ghanam e Ghout el-Shaal, che sono sotto il controllo del Servizio di controllo dell’immigrazione illegale, e al centro di detenzione di Assa, gestito dalle guardie di frontiera libiche sotto il ministero dell’Interno. Nei centri di Bir el-Ghanam e Assa, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha confermato “casi di tortura e maltrattamenti”. Questi abusi diffusi arrivano in un momento in cui “l’incitamento all’odio e gli atti di razzismo contro i migranti” sono in aumento in Libia, comprese le campagne di disinformazione online che invocano “l’espulsione di tutti gli africani subsahariani”. Volker Türk ha invitato dunque la comunità internazionale a rivedere e, se necessario, a “sospendere” la cooperazione in materia di asilo e migrazione con le autorità implicate in violazioni dei diritti umani.
Un report illuminante
È quello del Post: “Dal primo gennaio al 31 maggio 2024 sono arrivati in Italia via mare 21.113 migranti, secondo dati del ministero dell’Interno consultati dal Post. Sono meno della metà rispetto ai quasi 50mila arrivati nello stesso periodo l’anno scorso, ma è comunque il secondo dato più alto dal 2018. Delle persone arrivate 15.669 erano uomini, 1.378 donne e 4.066 minori, di cui il 75 per cento non accompagnati, cioè arrivati soli.
Queste persone sono arrivate a bordo di 543 imbarcazioni. Di queste, 300 sono partite dalla Tunisia, 221 dalla Libia e le restanti dall’Algeria e dalla Turchia. La Libia è però tornata a essere il primo paese per numero di migranti arrivati in Italia, come spesso avvenuto negli ultimi anni: da lì sono arrivati in 11.425, mentre dalla Tunisia 9.156. Il rapporto inverso con il numero di barche è dovuto al fatto che dalla Tunisia partono generalmente barchini più piccoli, che quindi possono trasportare meno persone, mentre dalla Libia partono imbarcazioni più grandi, spesso ex pescherecci in legno.
È un cambiamento di tendenza: nel 2023 la Tunisia era stata di gran lunga il principale paese di transito per chi era diretto in Italia. In tutto il 2023 erano arrivati quasi 98mila migranti partiti dalla Tunisia, principalmente dal porto di Sfax, mentre circa 52mila dalla Libia. Molto aveva a che fare con le politiche repressive adottate dal presidente tunisino Kais Saied, che governa in modo sempre più autoritario e da tempo attacca duramente i migranti subsahariani nel paese, trasformandoli in un capro espiatorio per spiegare le pessime condizioni sociali ed economiche del paese e spingendoli quindi ad andarsene.
Non esiste una spiegazione certa e inconfutabile per la netta diminuzione degli arrivi dalla Tunisia osservata nel 2024. Un’ipotesi è che questa tendenza sia dovuta alle conseguenze del memorandum d’intesa stipulato lo scorso luglio tra Tunisia e Unione Europea che puntava, tra le altre cose, a ridurre le partenze dei migranti. L’Unione Europea si è impegnata a versare alla Tunisia sostanziosi aiuti economici, tra cui un contributo a fondo perduto un da 105 milioni di euro per impedire le partenze delle imbarcazioni di migranti.
In base all’accordo l’Unione Europea si è impegnata a potenziare le capacità della Guardia costiera tunisina per permettere di intercettare in modo più efficace le imbarcazioni dei migranti. Non è chiaro per cosa i fondi vengano usati concretamente: lo scorso ottobre sarebbero serviti, tra le altre cose, a «riadattare» le navi della Guardia costiera, comprare nuovi mezzi e strumenti per l’assistenza ai migranti e fare attività di formazione agli operatori del settore. Anche diversi paesi europei, tra cui Italia, Germania e Francia, hanno avviato iniziative in collaborazione con la Tunisia per cercare di ridurre le partenze dei migranti, cioè di fermare con la forza chi cerca di partire.
Di conseguenza, negli ultimi mesi la Guardia costiera tunisina ha aumentato molto i controlli e sta riuscendo a intercettare più imbarcazioni di migranti: il ministro dell’Interno Kamel Fakih ha detto che tra gennaio e maggio del 2024 sono stati fermati quasi 53mila migranti che cercavano di lasciare la Tunisia per arrivare via mare nell’Unione Europea. Sono numeri molto ingenti, della cui veridicità dubitano diversi esperti di migrazione: probabilmente hanno comunque un fondo di verità.
A metà giugno, inoltre, la Tunisia ha comunicato ufficialmente di controllare una zona SAR nel Mediterraneo centrale, cioè una zona dove si impegna a mantenere attivo un servizio di ricerca e soccorso. Prima ne aveva una soltanto informale. L’istituzione di una zona SAR tunisina è stata agevolata dai paesi dell’Unione Europea ed era ritenuta un passaggio importante per legittimare le azioni della Guardia costiera tunisina.
Anche la cosiddetta Guardia costiera libica, un insieme di milizie armate finanziate e addestrate dall’Italia e dall’Unione Europea, cerca costantemente di intercettare e bloccare le partenze di migranti, con metodi spesso violenti. Per esempio, lo scorso aprile attaccò la nave Mare Jonio, della ong Mediterranea Saving Humans, durante un’operazione di soccorso di migranti: i miliziani spararono colpi d’arma da fuoco in acqua e in aria «creando il panico e provocando la caduta in acqua di diverse persone», secondo quanto riferito dagli operatori dell’ong. Mediterranea pubblicò anche un video dell’attacco, nel quale si vedono alcuni operatori della ong chiedere ripetutamente ai miliziani libici di non sparare, ricordando loro che si trovavano in acque internazionali.
I numeri del ministero sono comunque parziali. Molte più persone e molte più imbarcazioni hanno verosimilmente iniziato la traversata verso l’Italia: una parte difficilmente quantificabile salpa senza riuscire ad arrivare a destinazione a causa dei naufragi, delle intercettazioni della Guardia costiera tunisina o di quella libica, o di altri problemi durante la navigazione. Anche il numero di migranti arrivati non corrisponde al numero di persone partite, che con tutta probabilità è sensibilmente più alto.
Per esempio, a metà giugno circa 70 migranti sono morti in un naufragio nella zona SAR italiana a circa 250 chilometri dalle coste della Calabria: è stato possibile individuare e soccorrere le 11 persone rimaste a bordo soltanto perché la barca su cui si trovavano era affondata solo parzialmente”.
Così il Post
Giorgia insiste
Cosa siano i lager libici è cosa risaputa. Cosa sia la cosiddetta Guardia costiera libica, un aggregato di criminali in divisa spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani, è cosa altrettanto nota, grazie soprattutto al lavoro straordinario di giornalisti di razza come Sergio Scandura, Nancy Porsia, Francesca Mazzocchi, Nello Scavo per citarne alcuni. Chi stiamo finanziando la presidente del Consiglio lo sa molto bene, e come lei il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e i vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. Tuttavia, Giorgi Meloni insiste. E continua a puntare su criminali patentati, ricevendoli in pompa magna a Roma o andando direttamente a casa loro.
Scrive Giuseppe Gagliano su Notizie geopolitiche dell’8 luglio scorso: “Il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni ha incontrato ieri a Bengasi il generale libico Khalifa Haftar, un’iniziativa che ha sollevato significative questioni geopolitiche, con Haftar che sembra giocare un ruolo strategico e manipolatorio nelle dinamiche regionali. Nonostante le tensioni con i mercenari russi e l’ingerenza delle potenze straniere, Haftar utilizza l’Italia come hub per consolidare la sua influenza e ottenere armamenti, come dimostra il sequestro di un container pieno di armi di fabbricazione cinese destinato alla Libia. Questo episodio sottolinea le violazioni delle disposizioni delle Nazioni Unite e la capacità di Haftar di aggirare i controlli internazionali, sfruttando i rapporti bilaterali e la mancanza di coordinamento tra gli attori internazionali.
La situazione in Libia rappresenta una sfida complessa per l’Italia, che cerca di mantenere la sua influenza nel Mediterraneo attraverso un delicato equilibrio diplomatico. La presenza di Haftar a Tobruk offre una base strategica ideale per monitorare e influenzare le rotte migratorie e contrastare la minaccia jihadista proveniente da paesi instabili come il Sudan, il Mali e il Niger. Tuttavia, la crescente dipendenza di Haftar dai russi e dai mercenari, oltre alla sua capacità di sfruttare le rivalità tra le potenze occidentali, mette in discussione la capacità dell’Italia di gestire efficacemente la situazione.
In questo contesto la postura di Haftar riflette una strategia di sfruttamento delle debolezze degli attori internazionali, manipolando le dinamiche di potere a suo vantaggio. La Cina, attraverso la fornitura di armamenti, e la Russia, con il sostegno militare diretto, rafforzano la posizione di Haftar, complicando ulteriormente la situazione per l’Italia e gli Stati Uniti. La capacità di Haftar di destreggiarsi tra queste alleanze, mantenendo un’apparenza di collaborazione con l’Italia evidenzia la complessità delle dinamiche geopolitiche nel Mediterraneo e la necessità di una strategia più coesa e coordinata tra gli alleati occidentali.
L’Italia si trova in una posizione delicata, dovendo bilanciare le proprie necessità di sicurezza e stabilità regionale con le ambizioni e le manipolazioni di un attore imprevedibile come Haftar. La gestione della crisi libica richiederà un approccio più incisivo e collaborativo, capace di affrontare non solo le minacce immediate ma anche le sfide strutturali che alimentano l’instabilità nella regione”.
Così Gagliano.
Triste morale di una tristissima favola, che tale non è perché è una tragedia umanitaria reale che si consuma da anni e anni: in quel “mare della morte” che è diventato il Mediterraneo, o nel deserto sahariano o sulla rotta balcanica l’Italia e l’Europa sanno chi finanziano nella sponda Sud del Mediterraneo: signori della guerra, autocrati sanguinari, generali dittatori etc. Lo sanno, ma non interessa. Ciò che conta è che sappiano fare il lavoro per cui sono pagati: riportare indietro migliaia di disperati, rinchiuderli in centri di “accoglienza” in cui abusi, torture, stupri, sono il pane quotidiano. Lo sanno, ma fanno finta di niente. Se un giorno si dovesse tenere una “Norimberga del Mediterraneo”, sui banchi degli imputati dovranno essere in tanti a sedere, anche chi governa a Bruxelles o a Roma. E non solo gli ultimi arrivati.
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