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Trieste, i 70 anni di sacerdozio di don Carlo Boschin:  «La mia fede è frutto della vita di comunità»

TRIESTE. Don Carlo Boschin non vuole essere idolatrato, né ama ricevere troppi complimenti. Vive la sua vocazione con spontaneità e naturalezza, forse il solo modo per poter raggiungere l’anniversario che lui ha festeggiato il 4 luglio: settant’anni di ordinazione sacerdotale, trascorsi interamente nella diocesi di Trieste. Un record a tutti gli effetti, reso possibile da una «chiamata» molto precoce e da una vita molto longeva (ha da poco compiuto novantacinque anni). Ma don Carlo non vuole nemmeno stare ad ascoltare una parola del genere e, se qualcuno la pronuncia in sua presenza, si irrigidisce in uno sguardo ammonitore.

D’altronde ha rifuggito la magniloquenza fin da giovane, rassicurato in ciò dalla sua fede, tutta concentrata sulla quotidianità e sullo spirito di servizio. «Non ho avuto né visioni né rivelazioni particolari», racconta sorridendo, come se intuisse il rischio di un fraintendimento. «Ho soltanto desiderato fare quello che vedevo negli altri sacerdoti: persone che ammiravo quando ero ancora ragazzo». Il segreto – sempre se segreto è la parola giusta – di settant’anni di vita sacerdotale si nasconde qui: nel coltivare i rapporti con «persone e amici che ti fanno crescere spiritualmente», spronandoti ad assomigliare a loro.

«Mi colpiva la loro generosità, ma anche la facilità di raccogliersi e stare in preghiera», ricorda don Carlo, ripercorrendo gli anni della sua giovinezza passata nella parrocchia di San Vincenzo.

Nato nel 1929 a Trieste, è lì che inizia a scoprire la realtà comunitaria, prendendo parte al gruppo locale dell’Azione Cattolica, «molto vivace nel rione attorno a piazza Perugino». Partecipa alle iniziative organizzate nell’oratorio, ama stare insieme agli altri ragazzi e la domenica come tutti va a messa. Con il tempo, all’inizio inconsapevolmente, poi in maniera sempre più chiara, si rafforza il desiderio di approfondire ciò che stava accadendo in lui: «Cose umane e cose, diciamo pure, spirituali, divine», afferma don Carlo, pensando al carisma dei suoi compagni d’allora. «Amici e sacerdoti – ripete più volte – che io stimavo tantissimo».

Il ragionamento di don Carlo oggi appare lineare, del tutto comprensibile. Ma quando sceglie di seguire gli studi religiosi – iscrivendosi al seminario minore, che coincide con gli anni di liceo – ha soltanto quattordici anni ed è già sicuro di voler prendere i voti. Non bastasse, si aggiunge il dettaglio non trascurabile dello scoppio della Seconda guerra mondiale.

«Ho studiato a Capodistria, perché una volta il seminario di Trieste si trovava lì», rammenta don Carlo. Il suo primo incontro con l’abito da sacerdote è, però, ben poco idilliaco, come lui stesso racconta in un aneddoto che – nonostante il contesto drammatico – lo scioglie in una grande risata: «Quando i tedeschi arrivarono a Capodistria, il rettore del seminario mi disse: “Metti la veste da prete, così forse la scampi!”». Non andrà meglio con le forze di Tito: «Sequestrarono il seminario e ci mandarono tutti a Gorizia». Nel 1950 apre il seminario di via Besenghi a Trieste, e così Carlo può concludere lì i suoi studi universitari di teologia.

Dopo l’ordinazione sacerdotale, don Carlo passa per diverse parrocchie triestine, dalla chiesa di Santa Rita al rione di Borgo San Sergio, fino all’approdo a Gesù Divino Operaio, dove tutt’ora continua a celebrare messa. Ma ricorda con affetto particolare gli anni trascorsi ad Altura, contribuendo alla formazione della comunità (la nuova chiesa dedicata a Nostra Signora di Lourdes verrà consacrata soltanto nel 2000). «Celebravamo la messa in un prefabbricato – racconta don Carlo – costruito con il materiale recuperato dalle case dei terremotati di Artegna».

Anche in questo caso, a colpirlo è la disponibilità di chi impegna il suo tempo nella parrocchia: «Persone buone, che rafforzano la fede».

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