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Aeroporti fermi per il crash Microsoft, la disavventura da Kuala Lumpur: «Anche gli annunci arrivano in ritardo»

Anni di voli, vacanze nei posti più disparati del mondo e mai un ritardo maggiore di 30 minuti. Fino a venerdì, 19 luglio, quando, in vacanza nel sud est asiatico, ho in programma un volo da Kuala Lumpur, in Malesia, a Chiang Mai, in Thailandia, “capitale” del nord e dei templi.

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Il fuso orario segna sei ore in avanti rispetto all’Italia. Arrivo in aeroporto con abbondante anticipo, come da consuetudine. Check-in, imbarco il bagaglio, supero il controllo passaporti e quello di sicurezza e mi avanza pure il tempo per pranzare. Sono le 13.15 e l’aereo parte alle 15. Nel mentre, cominciano ad arrivare le prime notizie sul crash informatico mondiale.

Ma il tabellone di Kuala Lumpur continua a segnalare lo stesso orario per il volo su Chiang Mai. «Magari mi gira bene», penso. Come no... Arriva il primo avviso: ritardo di un’ora e 45 minuti. «Ti pareva» mi rassegno, ma tutto sommato è ancora accettabile. Mi attacca bottone, all’uscita del gate, uno scozzese. Simpatico: insegna da sette anni a suonare le batteria in Asia. Ha cominciato in Cina, poi con il Covid e la gente rinchiusa in casa con le inferriate ha preso armi e bagagli e si è trasferito in Thailandia. Normale e logico. Strana comunque la prima domanda: «Cosa sai di Gelli e dei rapporti con l’Argentina?» .

Vabbè cade bene. Discutiamo per un’oretta di tutto – dalle Falkland alle Brigate Rosse – fino a quando un gruppo di hostess annuncia che si comincia con l’imbarco. «Vuoi che siamo così fortunati?» dico al simpatico suddito di Sua Maestà. «Ma sì, altrimenti non ci imbarcherebbero». Nel frattempo la compagnia annuncia ufficialmente che i suoi sistemi non sono stati colpiti dal crash, ma soltanto «per la fase di check-in». Qui, ammetto, mi sorge qualche dubbio, ma alla fine mi faccio convincere dell’ottimismo dello scozzese e mi siedo tranquillo.

Il Terminal 2 di Kuala Lumpur ha una specie di zona d’attesa pre-finger e la gente attende fiduciosa di salire sull’aereo. Passano i minuti e niente. Passano altri minuti e ancora niente. Nel frattempo un caro amico mi scrive dall’Europa: «Secondo me devono prima risolvere il problema».

Detto, fatto. Improvvisamente la compagnia annuncia che il suo sistema è in crash e che adesso l’aereo partirà alle 19.15. Grida di disperazione, peraltro nemmeno eccessive, dalla stragrande maggioranza dei passeggeri di origine asiatica. Evidentemente più bravi di noi italiani ad accettare le fatalità. Lo scozzese ride, io mi avvicino a un signore con la pettorina della compagnia. «Salve». «Buon pomeriggio». «Scusi, ma secondo lei ci sono speranze di partire?». «Il sistema è in crash». «Sì, lo so, ma allora perché ci avete fatto pre-imbarcare?». «Eh, perché non c’era abbastanza spazio per tutti al gate». «E non potevate dircelo?». «Ma se non c’è nemmeno l’equipaggio...». «Scusi? E chi pensava pilotasse l’aereo? Io?». «Mi dispiace». «Anche a noi».

Ritorno a sedermi. Lo scozzese ha trovato un compatriota e parla di rugby. Lì non posso intervenire. Non so nulla. Leggo la mia guida sulla Thailandia, sperando di arrivarci, prima o poi. Nel frattempo la compagnia distribuisce una specie di pranzo al sacco. Dentro c’è solo dell’acqua e un panino. E io sono celiaco.

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