Diego Dalla Rosa,la formica rossa dell’alpinismo: una vita controvento
Rifugio Pradidali, sotto le Pale di San Martino, una sera del 1978 (o giù di lì) tre giovani alpinisti fanno baldoria. «Rigoroso e obbligatorio bere birra, se non lo facevi eri ridicolizzato», racconta a distanza di 46 anni Diego Dalla Rosa, premio Pelmo d’oro alla carriera alpinistica. «A fine serata, muovendoci, abbiamo ribaltato la sedia di un vicino di tavolo. Questo si alza, arrabbiatissimo. Poi vede il nostro equipaggiamento alpinistico e comincia a parlare».
Chi è
Classe 1952, Diego Dalla Rosa ha un curriculum alpinistico eccezionale: alpinista e scialpinista, pioniere del volo libero, viaggiatore ed esploratore. Controcorrente ed anticonformista, l’avventuriero feltrino per antonomasia. Viene descritto così nella motivazione per premio Pelmo d’oro alla carriera che gli verrà consegnato sabato 27 luglio a Pedavena. L’elenco delle pareti conquistate e delle vie aperte per primi è molto lungo, sia in Italia che in Sudamerica. Insieme con Bortolot, De Bortoli e Manolo aprono nuovi itinerari nella Cima Bus del Diaol e nelle pareti della Cima della Borala. Oltre alla via Meinholf con Bortolot del 1977, va ricordata la via aperta con Manolo sulla verticale nord ovest della Cima delle Coraie. Con Aminta un anno dopo lo spigolo nord della Torre dei Feruch. Sulle Vette Feltrine ci sono molte ripetute sul Sass de Mura e sul Pizzocco, oltre a diverse nuove salite. Senza dimenticare il Primiero, ad esempio la via Heidi alla Cima Canali. Molte sono scalate con gli amici di sempre ma ci sono anche tante solitarie. Negli anni Ottanta iniziano le spedizioni nel Sud America, tra cui la conquista del Cerro Tronador e la via principale dell’Aconcagua. Tra le avventure più importanti la salita del Cerro Corcovado in Cile, in completa solitudine. Dopo l’alpinismo, lo scialpinismo e lo sci ripido, discese estreme nelle Vette Feltrine, come la Via dei Veci sul Sass de Mura, mai più rifatta, ma anche in Marmolada e sulle Pale, seguendo le orme del forte Toni Valeruz. Al suo attivo, nel parapendio, il decollo dalla vetta del Sass Maor, l’impresa più audace e mai ripetuta.
L’incontro
È un ingegnere dell’Anas del dipartimento di Bolzano: in quei giorni avevano dei grossi problemi in Val d’Ega per una frana incombente sulla strada. «Ci dà il suo biglietto da visita e ci chiede di contattarlo per parlare di un eventuale lavoro di disgaggio. Il lunedì successivo lo chiamo e vado a Bolzano. Parliamo per alcune ore, mi spiega cosa gli serve, sopralluoghi, controllo della parete, magari anche disgaggi. E mi sottopone un contratto di lavoro. Guardo il compenso e ne contesto immediatamente l’importo che, in base alle nostre possibilità dell’epoca, mi sembrava decisamente troppo». Il compenso resta, il lavoro anche. Poi arrivano altre commesse, altri lavori che Dalla Rosa svolge insieme agli amici alpinisti di una vita.
Il consorzio
E quattro anni dopo, dalla passione di dodici soci, nasce il Consorzio Triveneto Rocciatori, azienda che negli anni successivi raggiungerà anche i 90 dipendenti, sede a Fonzaso, progetti realizzati non solo in Italia, a difesa di strade, ferrovie, siti valanghivi, paesi. L’attività alpinistica di Dalla Rosa era cominciata ovviamente prima, attorno al 1970-72. «Ho iniziato a fare alpinismo a 18 anni nella palestra naturale delle Perine, a Feltre. Andare in montagna era una passione di famiglia, soprattutto verso luoghi selvaggi, poco frequentati. Per dieci anni il nostro luogo preferito (mio e di un gruppo ristretto di amici) sono stati i Monti del Sole».
Gli esordi
Cosa voleva dire fare alpinismo per voi allora? «Non avevamo la macchina e quindi si arrivava in corriera fino a Santa Giustina, poi si faceva l’autostop: ma ci sono stati due o tre casi in cui siamo andati a piedi con l’attrezzatura in spalla fino in Valle del Mis, poi su a Gena Alta e da lì al bivacco Valdo e poi in parete. Si stava via diversi giorni, anche una settimana».
Lei, Aldo Bortolot, Roberto De Bortoli detto il Bob e in seguito Manolo, siete stati chiamati “Formiche rosse”, per indicare un preciso impegno politico. «Era il tempo del movimento studentesco che a Feltre era molto forte e attivo. In quegli anni erano più i giorni di sciopero che quelli di scuola: si portavano fuori i banchi mettendoli in strada, bloccando il traffico, e non è mancato qualche scontro. Non ricordo chi ci ha chiamato “Formiche rosse”, è cominciato per caso ed è rimasto. Erano anni di intensa attività politica, avevamo mille speranze, mille idee, la ricerca della libertà, il non voler soccombere al sistema dell’epoca». Voi frequentavate solitamente tante vette importanti vicino a Feltre, dalle stesse Vette Feltrine, alle Pale di San Martino, alle Dolomiti in generale. Ma avete preferibilmente scelto, quasi un luogo del cuore, i Monti del Sole. Perché? «Era un posto selvaggio, difficile da raggiungere, pochissimo esplorato, qui non si arriva in macchina fino al rifugio sotto la parete da scalare, si va su a piedi, con ore di cammino: ci sentivamo liberi e felici. Sui Monti del Sole abbiamo aperto molte vie nuove, alcune mai ripetute sulla Croda Bianca o Coraie, sul monte Alto con la sua torre, sul monte Fornel, per citarne alcuni».
Il vostro punto di partenza era Gena Alta, una frazione sopra il lago del Mis allora completamente disabitata. «Molte case abbandonate erano aperte, abbiamo trovato perfino i quaderni di scuola del Ventennio. Stavamo lì un paio di giorni per preparare la scalata: eravamo abusivi, ma non i soli. C’erano anche artisti come Franco e Michelino, e poco più lontano degli hippy del nord Europa».
La provocazione
Una delle vie che ha creato scandalo, per la persona a cui l’avete intitolata, è sulla Cima del Bus del diaol. «È la via Ulrike Meinhof (rivoluzionaria tedesca, uccisa in carcere, fondatrice del gruppo armato Raf, ndr), scalata da me e Bortolot. Il nostro modo di fare alpinismo era assai diverso da quello tradizionale dell’epoca, tanto dal punto di vista ideale che pratico: intitolavamo infatti le vie nuove non più ad argomenti o personaggi alpinistici, ed arrampicavamo con le scarpe da ginnastica anziché con gli scarponi». Chi sono stati i compagni di queste imprese alpinistiche? «Accanto a Bortolot, De Bortoli e Manolo, metto Attilio Aminta per la parte alpinistica. Poi negli anni successivi ho fatto molto sci alpinismo e sci ripido con i più giovani Mauro, Herman, Pietro, Daniela, Carlo, Pietro, Eric e altri amici». A questo curriculum italiano, vanno aggiunte le salite di molte cime in Sudamerica, tra cui il Cerro Aconcagua, quasi settemila metri.
Le imprese
«Per quattro anni sono andato tutti gli anni per tre mesi in America Latina, partendo senza una idea precisa. Poi magari viaggiando in treno vedevo in lontananza una vetta che mi sembrava buona e mi fermavo alla prima stazione».
Non è mica finita qui. Va citato anche il volo libero con il parapendio, di cui Dalla Rosa è uno dei pionieri nel Bellunese, con pericolosi e audaci decolli soprattutto dalle Pale di San Martino e dalle Vette Feltrine. E nello sci alpinismo e nello sci ripido ci sono molte prime discese che nessuno ha più affrontato. —
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