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Dieci anni dalla tragedia del Molinetto, il geologo: «Non abbiamo imparato niente»

Dieci anni dalla tragedia del Molinetto, il geologo: «Non abbiamo imparato niente»

foto da Quotidiani locali

Se la tragedia del Molinetto della Croda del 2 agosto 2014, con quattro morti, potesse rappresentare una “lezioni” su come approcciare le emergenze climatiche, «essa non è stata capita, se non in minimissima parte». Lo afferma Gino Lucchetta, uno tra i più autorevoli geologi del territorio, insegnante al Casagrande di Pieve dove andrà in pensione tra un mese e 8 giorni.

Perché la lezione non è stata capita?

«Per i motivi che ho sempre spiegato ai miei allievi e che loro hanno ben inteso. Ci sono in natura situazioni a rischio – anche idraulico, nella fattispecie – che i cambiamenti climatici stanno rendendo ancora più pericolose. Lo ha dimostrato la recente tragedia nel fiume Natisone, con tre morti. Ci vuole prudenza. Io, quando vado in un supermercato, constato anzitutto quali sono le uscite di emergenza. In caso di terremoto, so come comportarmi».

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Il Piave è un fiume a rischio?

«Da un punto di vista idrogeologico è a rischio non più di altri corsi d’acqua, perché ha vari livelli di regolamentazione. Però fare il bagno in determinate fosse è pericoloso».

E il famigerato Lierza, il torrente che ingrossandosi, quella sera di 10 anni fa, ha compiuto la strage a Refrontolo?

«La sua pericolosità, in determinate condizioni meteo, è evidente. Quindi è meglio starsene lontani. Dopo la tragedia, è stato installato un sistema di monitoraggio che garantisce condizioni di sicurezza in termini di prevenzione. So che sono collegati il Comune di Refrontolo come pure l’Associazione di volontariato».

C’è anche un problema di pulizia costante dei corsi d’acqua?

«Come nel caso del Lierza, così in altri fiumi o torrenti, è sufficiente che cada un albero o una balla di fieno perché si formi una diga. Il che è estremamente pericoloso in presenza di precipitazioni così rovinose. Non basta pulire una volta tanto. Come, va detto, le tante lavorazioni in collina per i vigneti devono poter contare su una regimazione delle acque non improvvisata ma studiata da tecnici, da professionisti».

I sensori sono stati piazzati anche sulle frane del Fadalto. Come, due anni fa, sul ghiacciaio della Marmolada. Significa che dovremo monitore così tutte le aree a rischio?

«Come si fa? Vede le colline dell’Unesco tappezzate di sensori? Il bosco del Madean, a Valdobbiadene? Le Perdonanze a Vittorio Veneto? È impossibile, sia per i costi che per la gestione. Bisogna, invece, assumere responsabilmente comportamenti virtuosi. La Regione sta provvedendo alla messa in sicurezza di tanti nostri corsi d’acqua, attraverso il genio Civile, i Servizi Forestali, i Comuni. Mancano però la sensibilità, anzi la responsabilità, dei privati».

Dove trova che c’è ancora della irresponsabilità? «Chi pianta un vigneto, magari attraverso la rigenerazione di uno esistente, perché si ostina a realizzarlo a ritocchino in collina, quando sa che provocherà gravi danni? Certo, i filari verticali, anziché orizzontali, magari rispettando il terrazzamento, sono più gestibili per lavorarli, per procedere alla vendemmia. Ma abbiamo visto sui colli di Conegliano quali disastri hanno comportato nel corso di un recente temporale? Bisogna ammettere, che qualche investitore si sta ravvedendo, ma troppo lentamente».

Qualche esempio?

«A nord di Conegliano un vignaiolo si era ostinato a piantare un vigneto a ritocchino. E, in questo, era risultato inadempiente anche rispetto alle indicazioni date dal Comune. Sono in seguito intervenuto, riscontrando che l’acqua piovana aveva creato dei pericolosi canali di scorrimento. Dopo due anni di insistenze, finalmente, quell’imprenditore si è deciso di reimpiantare il vigneto a terrazzamento».

Passando alla grave problematica delle frane, si sa che la Val Lapisina è stata conformata da questi grandi sommovimenti. Nessun problema per gli impianti idroelettrici?

«Le condotte di derivazione sono quasi tutte scavate entro il fianco occidentale dalla valle, nelle rocce calcaree del Mesozoico, a garanzia di maggiore stabilità rispetto allo scavo nei materiali di frana. Solo la galleria dell'impianto del 1915 tra il Lago Morto e la centrale di Nove sul Lago del Restello attraversa per circa 2 chilometri la frana di Nove, ma venne abbandonata già negli anni Venti con la creazione della nuova galleria di 3,5 chilometri, entro il fianco destro della valle».

Ha ultimato la ricognizione sulle frane delle Colline Unesco e in particolare quelle lungo la provinciale 36, località Madean?

«Consegnerò i risultati nei prossimi giorni. Abbiamo contato, lungo la scarpata a monte della strada, lungo appena un chilometro, ben 6 cedimenti. Fra i tanti problemi, c’è quello della ripidità della scarpata stessa. L’inclinazione è tale che l’acqua delle precipitazioni più abbondanti si mangia il ciglio, quindi dobbiamo rifare queste scarpate, con inclinazioni più dolci. E poi c’è il problema del bosco…».

Il bosco è mitragliato da smottamenti?

«Appunto. In questa vegetazione, abbandonata a sé stessa da anni, entra, se va bene, solo il cacciatore. Vogliamo decidere di curarle queste aree forestali? Il wilderness è ingovernabile, arreca solo problemi. Le frane nella boscaglia della pedemontana si contano a centinaia».

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