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Kamala Harris? I motivi per i quali Michelle Obama è una migliore candidata alla Casa Bianca

Più che la rabbia vendicativa del cattolico rabbioso Vance, più che il Dio suprematista di Trump, il “becoming” di Michelle Obama sembra contenere la ricetta per curare nella fratellanza e nel rispetto per gli altri la Grande America

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Ormai sappiamo tutti che il male oscuro esiste. Quale sarà il male oscuro dell’America d’oggi? Rispondere a questa domanda è importante, per tutti, non solo per gli americani, visto e considerato che parliamo del Paese più importante del mondo. Il primo male oscuro che viene in mente, di tutta evidenza, è Dinasty: sarà anche una grande democrazia ma se pensiamo alle presidenziali Usa pensiamo a Dinasty: i Kennedy (uno corre anche ora), i Bush, i Clinton, e poi Trump che essendo miliardario la sua Dinasty la fonda. Pensare allora che Michelle Obama entrerebbe nella Dinasty americana come la Obama ci sta, ma può essere fuorviante. Anche la democrazia americana è imperfetta, ma non è Dinasty il suo male oscuro. A me sembra che stia diventando una certa, preoccupante, allarmante, idea di Dio. 

Un Dio che illude di superiorità i suoi credenti cristiani americani bianchi. Noi siamo i prediletti, i migliori, i superiori. E’ il suprematismo che una certa deformazione della fede sta diffondendo a piene mani tra i supporter del Make America Great Again, il popolo MAGA dell’uomo salvato da Dio in persona, Trump, o del suo barbuto (come tanti altri, avete presente?) Vice, il cattolicissimo Vance. 

Tempo fa padre Antonio Spadaro e il pastore Marcelo Figeroa hanno dipinto il mondo inquietante che in America sta inventando, intorno a Trump, un Vangelo tutto nuovo, il Vangelo della prosperità, quello per cui se sei ricco vuol dire che Dio ti ama, se sei povero vuol dire che non hai fatto abbastanza per farti amare da lui. In quel saggio si legge: Una delle caratteristiche di questi movimenti è l’enfasi posta sul «patto» sottoscritto da Dio con il suo popolo, i suoi testamenti della Bibbia. E principalmente si è trattato di patti con i suoi patriarchi. Sicché il testo del patto con Abramo ha un posto centrale, nel senso della prosperità assicurata. La logica di questo concetto del «Dio dei patti» è che, siccome i cristiani sono figli spirituali di Abramo, sono anche eredi dei diritti materiali, delle benedizioni finanziarie e delle occupazioni territoriali terrene. Più che di un patto biblico, sembra che si tratti di un «contratto». Kenneth Copeland ha scritto, nel suo libro Le leggi della prosperità, che, poiché il patto di Dio è stato stabilito e la prosperità è tra i lasciti di tale patto, il credente deve prendere coscienza del fatto che la prosperità adesso gli appartiene di diritto. In queste teologie, l’appartenenza filiale dei cristiani in quanto figli di Dio viene reinterpretata come quella dei «figli del Re»: figliolanza che dà diritti e privilegi monarchici soprattutto materiali a coloro che la riconoscono e la proclamano. Harold Hill, nel suo libro Come essere un vincitore, ha scritto: «I figli del Re hanno diritto a ricevere un trattamento speciale, perché godono di una relazione speciale viva, di prima mano, con il loro Padre celeste, che ha fatto tutte le cose e continua a esserne Signore»

Questa idea di Dio deve inquietare ed è giusto che sia così, non può che essere così quando Dio viene identificato con superiorità, rabbia, vendetta, non sono pochi i motivi per mettersi le mani nei capelli, soprattutto se ciò rischia di rovinare la più grande democrazia al mondo. Il discorso è delicatissimo, allarmante. Finire in mani agli epigoni di Khomeini non piace a nessuno e non può essere certo il nome che diamo a Dio a preservarci. 

Occorre allora una visione, che possa recuperare la fiducia in ciascuno e quindi in Dio, nella fede e ad un contesto fatto di convivialità, di accettazione, e quindi d’incapacità di guidare un grande Paese multietnico, multiereligioso, che anzi può fare delle fedi un volano di crescita e coesione nella diversità. 

Nel suo libro, Michelle Obama, offre una ricetta semplice per far riscoprire al suo Paese la grandezza del mito americano, del meloni pot e -a mio avviso- nel Dio di tutti: “ l’autrice esprime la convinzione che tutti i ragazzi e le ragazze possono aiutare sé e gli altri, ovunque si trovino; invita i lettori più giovani a convincersi che nessuno è perfetto, perché quel che conta è il viaggio per diventare noi stessi; e nel ricostruire con onestà e coraggio la sua storia, Michelle Obama lancia una sfida: chi siete davvero e cosa volete diventare?”   

Più che la rabbia vendicativa del cattolico rabbioso Vance, più che il Dio suprematista di Trump, il “becoming” di Michelle Obama sembra contenere la ricetta per curare nella fratellanza e nel rispetto per gli altri la Grande America, e fare in modo che l’America torni davvero grande, come esempio, non come minaccia o rifiuto. Per questo, pur sapendo che non ne vuol sapere, e sapendo che entrerebbe a far parte di una Dinasty così profondamente americana, penso che sarebbe un’ottima candidata alla Casa Bianca. 

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