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Una «Cassa dei migranti» non ripopolerà l’Italia



Va bene, non chiamiamola sostituzione etnica, perché altrimenti si finisce per essere accusati di razzismo. Togliamo l’aggettivo e lasciamo solo sostituzione: gli italiani, di cui è nota la decrescita demografica, devono essere sostituiti dagli africani, che invece di essere guardati come una minaccia vanno considerati come una risorsa. In sintesi, è il discorso che il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha rivolto ai presuli riuniti a Benevento per discutere delle «aree interne».

Non bisogna solo «conservare il passato, ma anche avere un futuro» ha spiegato il monsignore. «E in tal senso l’accoglienza può aiutare». In altre parole, passiamo dall’idea che dalle migrazioni ci si debba difendere, a quella di aprire le porte ai migranti.

I borghi si spopolano, le case dei paesi del Mezzogiorno ma non solo rimangono vuote? Diamoli agli extracomunitari, ma dopo aver fatto gli investimenti giusti per fornire loro gli strumenti e le infrastrutture necessarie. In pratica, il discorso del cardinale non è diverso da quello di Mimmo Lucano: soldi pubblici per trovare occupazioni e alloggi a chi arriva sui barconi. L’Avvenire, organo della Cei e trombettiere delle politiche migratorie, è ancora più esplicito. Infatti, in prima pagina ha titolato: «Aree interne, l’Sos dei vescovi: futuro solo nell’accoglienza».

È il «modello Riace» alla massima potenza ed esteso a tutto il Paese, la sostituzione come soluzione del problema del calo demografico e dello spopolamento delle periferie. Ai vescovi non importa nulla dello strascico giudiziario che ancora insegue Lucano con una condanna. Ma soprattutto i presuli, alcuni dei quali sono gli stessi che hanno finanziato Luca Casarini e la sua banda (consentendo all’ex disobbediente di mettere in acqua una nave per far approdare gli extracomunitari in Italia), sorvolano sull’aspetto principale del piano di ripopolamento delle aree interne con i migranti: chi lo finanzierà? E che servano soldi, ovviamente pubblici, per consentire agli stranieri di insediarsi nei borghi dispersi, è evidente.

Lo spiega lo stesso Avvenire, quando per illustrare l’intervento del presidente della Cei Zuppi ha titolato «Idea seria di accoglienza e infrastrutture: l’Italia dia un futuro alle aree interne».

L’idea seria è ristrutturare le case per metterle a disposizione dei profughi? Oppure è la realizzazione di servizi e collegamenti in paesi che ne sono sprovvisti? O, ancora, la creazione di posti di lavoro con il sussidio statale? Perché sono queste le ragioni per cui giovani e meno giovani hanno lasciato la loro casa decidendo di emigrare. Non se ne sono andati perché erano stanchi di vivere sull’Appennino, tra lepri, tassi e ricci, circondati da boschi di faggi, abeti e pini. Ma solo perché non c’era lavoro, non esistevano servizi - scolastici e sanitari - e collegamenti.

Però, se qualcuno investisse in tutto ciò, credo che la maggior parte delle persone emigrate, le quali spesso hanno conservato casa nei luoghi d’origine e vi tornano per trascorrere brevi periodi di vacanze, rientrerebbero. Lo ha detto anche il vescovo di Novara, Franco Giulio Brambilla, il quale ha spiegato che da quelle zone «si fugge per lavorare, viaggiare, divertirsi, ma poi si ritorna per riposare, ristorarsi e ritrovare le radici». Se è così, non c’è bisogno di sostituire gli italiani con gli africani: basta mettere in pratica quello che si vuol fare per accogliere gli extracomunitari.

Del resto, il modello Riace si riassumeva in questo. Con i soldi pubblici si cercava di tenere in piedi un’economia di paese che altrimenti da sola sarebbe caduta. Infatti, quando i magistrati vollero vederci chiaro, il sistema crollò. Quella di Lucano, in fondo, era una piccola cassa del Mezzogiorno creata su scala locale. Ora i vescovi la vorrebbero trasformare in qualche cosa che coinvolga tutto il Paese. In tal caso la potremmo chiamare «Cassa dei migranti». Alla faccia di chi sostiene che grazie a loro pagheremo le pensioni.

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