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Il mondo a blocchi



La Cina punta a diventare la prima potenza mondiale a scapito degli Stati Uniti. E per questo ha costruito forti alleanze con la Russia, l’India e gli altri Paesi Brics. Mentre il Vecchio continente resta fermo nel suo isolamento, ecco formarsi una geografia con altri protagonisti. Un ordine che rischia di archiviare, drammaticamente, la globalizzazione. La nuova Guerra fredda è cominciata.

Tre mesi dopo. La Cina entrò nel Wto - l’Organizzazione mondiale del commercio - l’11 dicembre 2001, a 90 giorni dall’apocalisse delle Torri gemelle. L’unico atto di guerra mai portato sul territorio americano. George W. Bush, 43° presidente degli Stati Uniti che invaderà l’Afghanistan e poi l’Iraq a caccia di Osama bin Laden, non si ricordò che a Pechino studiano Sun Tzu: «L’arte suprema della guerra è quella di sottomettere il nemico senza combattere». Se ne è dimenticato tutto l’Occidente, compresa l’Europa che, nel suo afflato verde, si è ora consegnata nelle mani dei costruttori di batterie, pannelli fotovoltaici e auto elettriche che stanno al di là della Grande Muraglia.

È in piedi da 2.300 anni e non è caduta come il muro di Berlino. Disegna una nuova geografia definendo i confini di un mondo sino-centrico dove si scontrano il blocco che dipende da Pechino e quello occidentale aggrappato alla Nato con l’Europa sempre più marginale, anche economicamente. I numeri, come sempre, spiegano: attorno alla Cina si muovono i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica con la doverosa aggiunta di Arabia Saudita). Questi Stati rappresentano il 48 per cento degli abitanti del Pianeta e valgono il 32 per cento del Pil, più o meno 32 mila miliardi di dollari. Il G7 mette insieme meno di 800 milioni di persone (circa il 10 per cento della popolazione), vale ancora il 46 per cento del Pil mondiale - in un decennio ha perso il 20 per cento - e gli Stati Uniti sono il pilastro con poco meno di 27 mila miliardi contro i quasi 20 della Cina. L’India è diventata la quinta economia del mondo e, con una crescita dell’8,7 per cento, ha già superato la Germania. Così entro il 2030 sarà la terza economia del globo.

Considerando il Pil a parità di potere d’acquisto, i Brics hanno già contribuito al 31,5 per cento del Pil globale, rispetto al 30 per cento del G7. Questo è il programma, per nulla segreto, di Xi Jinping deciso ad arrivare al 2049 - nel centenario della Repubblica popolare cinese - con l’annessione di Taiwan e il sorpasso dell’America come prima economia. Il resto sono incidenti di percorso.

Il proiettile che doveva uccidere Donald Trump a Butler in Pennsylvania, è uno di questi. Quel «Fight, figth, fight» gridato col volto insanguinato e il pugno chiuso dal candidato repubblicano (e molto probabilmente prossimo presidente americano) ai suoi supporter fa venire in mente che proprio lui ha detto: «Non ci sarebbe mai stata la guerra in Ucraina con me presidente, non ci sarebbe stata la guerra con Israele e il 7 ottobre». Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino, ha recepito il messaggio: «A novembre, ai colloqui di pace, dovrà esserci anche una delegazione russa». Dimitri Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha risposto: «Il primo summit di pace di Zurigo tutto era tranne che di pace, vediamo».

L’Ucraina è il tableau del Risiko che Pechino ha l’interesse ad allungare; come in Medio Oriente bisogna sfiancare l’Occidente, tenerlo impegnato. Soprattutto se Trump vorrà trattare con Putin, soprattutto se Viktor Orbán si mette nel mezzo e toglie a Recep Tayyp Erdogan - il turco bifronte che sta nella Nato, ma fa affari con Pechino e Mosca - il ruolo di mediatore di facciata. La Cina lavora perché i fronti restino caldi senza esplodere.

È un segnale l’invito del ministro degli Esteri cinese Wang Yi a Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas, per incontrare una delegazione di Fatah guidata da Mahmoud al Aloul, il vicepresidente del partito palestinese: in discussione, il futuro della striscia di Gaza e della Cisgiordania. Apparentemente Pechino li vuole mettere d’accordo per poi trattare con Israele; probabilmente invece vuole marginalizzare gli Stati Uniti perché ha stretto un’alleanza di ferro con l’Arabia Saudita, partendo prima dal commercio per poi arrivare al sostegno politico e all’ingresso nei Brics e nella banca dei non allineati. Il regno di Riad è il primo fornitore di petrolio della Cina; accetta pagamenti in renminbi, la moneta del Dragone; ha un interscambio con quel Paese per 57 miliardi di dollari di export e 30,3 miliardi di import. Pechino che ha fatto da mediatore tra Iran e Riad vuole ergersi a protagonista dell’area. Si tratta sempre della strategia di Sun Tzu. In ossequio a questa la Cina tifa per lo scontro tra Russia e Stati Uniti, tra Mosca ed Europa. Guarda con soddisfazione ai venti da Guerra fredda che sono tornati a spirare sul confine nord-orientale europeo. Perché, nel frattempo, Pechino si sta schierando nel quadrante Indo-Pacifico.

Lì, dopo aver conquistato l’Africa con una strategia economica avvolgente, vuole giocarsi la partita decisiva con Usa, Ue e Giappone. Teme soltanto che a Washington qualcuno si ricordi degli insegnamenti di Ronald Reagan che allora parlava dell’Urss, ma che oggi il suo probabile successore Trump potrebbe adattare alla Cina: «Siamo di fronte al nemico più malvagio che l’umanità abbia conosciuto nella sua lunga scalata dalla palude alle stelle. Non ci può essere sicurezza in nessuna parte del mondo libero se non c’è stabilità fiscale ed economica negli Stati Uniti».

Xi Jinping non teme i missili americani che Joe Biden ha schierato in Germania con la massima soddisfazione di Olaf Scholz, il cancelliere «di stretta minoranza tedesca». Non teme neppure le intemerate dei capi europei della Nato - da Jens Stoltenberg che lascia, a Mark Rutte che entra, lo spartito non cambia - né il riarmo sul quadrante del Vecchio continente. Da noi ci pensa Putin a «tenere in caldo» la Guerra fredda. Xi Jinping teme l’America First: il dollaro, la ripresa produttiva americana. E deve stare assai attento alle prossime mosse di Trump, semmai tornerà alla presidenza, che proprio all’Indo-Pacifico aveva dedicato una precisa strategia: il Quod, un accordo tra America, Giappone, Australia e India. Ma Biden ha trascurato i rapporti con l’India e oggi dell’ambizioso piano anti-Dragone resta solo l’Aukus che non comprende più Nuova Delhi. D’altra parte, in quell’area la Cina è particolarmente attiva. Con Narendra Modi ha firmato il mese scorso 24 accordi commerciali per 10 miliardi di dollari e l’India - nonostante sia un concorrente industriale soprattutto sul fronte delle nuove tecnologie temibilissimo e si dia molto da fare per contrastare l’espansione cinese negli Stati insulari del Pacifico - è il primo partner per Pechino in quel quadrante. Qui la Cina punzecchia le Filippine, fa accordi di ferro via Putin con la Corea del Nord, accerchia con la strategia del pitone Taiwan, provoca i territori di Oltremare europei. E non è estranea ai disordini gravissimi scoppiati in Nuova Caledonia e che hanno allarmato la Francia.

L’Europa, come al solito, procede divisa: la Germania ha stretto un bilaterale col Giappone, l’Italia partecipa a manovre navali, la Francia ha siglato un trilaterale con India e Australia, ma non si va oltre. La Cina invece fa la guerra senza farla: con i soldi. Lascia a Putin il compito di abbaiare alla luna sostenendo con Peskov: «Gli Stati Uniti hanno schierato missili di diversa gittata puntati verso il nostro Paese. Di conseguenza la Russia ha identificato centri europei come obiettivi per i nostri missili». Il paradosso è che gli Stati Uniti continuano a incassare denaro, mentre l’Europa è nel mirino dei missili. Tutto questo, ha detto Peskov, è già successo in passato. «Abbiamo abbastanza potenziale per scoraggiare questi missili e le capitali europee sono possibili bersagli» ha scandito. Davvero sembra che l’orologio della storia sia tornato agli anni della Guerra fredda. A far girare al contrario le lancette è stato Biden quando ha ordinato - dopo venti, disastrosi anni d’occupazione - il ritiro da Kabul. La «retromarcia» dall’Afghanistan a fine agosto del 2021 ha convinto sei mesi dopo il Cremlino a lanciare, a fine febbraio 2022, l’offensiva su Kiev. I russi e i cinesi si erano convinti che Washington avesse iniziato il disimpegno militare globale. E mentre Putin è rimasto a fare la guerra, Pechino ha proseguito la sua corsa verso il futuro. Ciò che Xi Jinping teme è che mentre l’arma di distrazione di massa - il conflitto in Ucraina, quello palestinese, gli attacchi degli Houthi nel mar Rosso, le rivolte nelle enclave europee sparse nel mondo come ultime eredità dell’epoca coloniale - funziona, s’inceppi il grosso calibro: l’offensiva economica. Per questo ad Astana, in Kazakistan, meno di un mese fa il presidente a vita del Dragone ha ribadito che l’alleanza con Putin è il pilastro del nuovo ordine mondiale; per questo ha insistito che l’annuale vertice della Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, è insieme con il gruppo dei Brics il punto di partenza per la liberazione dal dollaro; per questo ha rilanciato l’idea che insieme alla Bielorussia anche il Kazakistan entri nell’orbita dei Paesi che fronteggiano l’Occidente in un’alleanza allargata a Turkmenistan, Tagikistan e che flirta con l’Azerbaigian.

Lì, nel cuore caucasico d’Eurasia ci sono le riserve energetiche, lì ci sono tassi di crescita esuberanti. È questo l’arsenale con cui Xi sta muovendo alla conquista del mondo. Disegna una nuova geografia: quella dei blocchi mandando in soffitta la globalizzazione cominciata l’11 dicembre, ventitré anni fa.

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