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Benjamin Netanyahu non avrebbe dovuto parlare al Congresso Usa, ecco perché

Benjamin Netanyahu non avrebbe dovuto parlare al Congresso Usa, ecco perché

Un vero leader, non accecato dalla combinazione letale di furia distruttiva e voglia di vendetta, avrebbe cancellato il viaggio a Washington, nella disperata ricerca di sponde politiche e amicizie difficili. Invece no. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in un contesto politico e geopolitico estremamente delicato, con l’America in una fase di turbolenze senza precedenti […]

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Un vero leader, non accecato dalla combinazione letale di furia distruttiva e voglia di vendetta, avrebbe cancellato il viaggio a Washington, nella disperata ricerca di sponde politiche e amicizie difficili. Invece no. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in un contesto politico e geopolitico estremamente delicato, con l’America in una fase di turbolenze senza precedenti e di profondi cambiamenti dovuti alla battaglia per la Casa Bianca tra Harris e Trump, parla al Congresso degli Stati Uniti, si incontra con un presidente “lame duck” (anatra zoppa) quale il Joe Biden post ‘gran rifiuto’, vede il candidato repubblicano Trump (forse a Mar-a-Lago in Florida) ma non la candidata democratica Harris.

Netanyahu è uno dei leader più polarizzanti e divisivi al mondo. E’ profondamente impopolare in patria (tutti i sondaggi indicano che il suo rivale Gallant, uscito dal governo, vincerebbe le elezioni se si tenessero oggi). E’ accusato dalla Corte Internazionale di Giustizia di “genocidio” e “crimini di guerra” per la crudele distruttività delle azioni militari israeliani contro la popolazione civile palestinese a Gaza. E, fatto clamoroso, è aspramente criticato dai suoi stessi generali dell’IDF (Israel Defense Force) a cui è delegata l’operatività militare sul campo: più di una volta sono usciti allo scoperto con atti di sostanziale insubordinazione al governo, rifiutandosi di eseguire gli ordini. Tra le principali accuse a Bibi è non essere riuscito a concludere un accordo di cessate il fuoco con Hamas che permetterebbe di liberare alcuni dei 116 ostaggi ancora detenuti (molti dei quali sicuramente già morti). Ma la critica più giusta, forse la più grave, è quella di sottoporre il paese alla prospettiva di una guerra senza fine, con il solo obiettivo della propria sopravvivenza politica.

Il discorso di Netanyahu a Capitol Hill è il suo quarto di fronte a una sessione congiunta del Congresso, e con ciò supera il suo idolo Winston Churchill per il numero di speech tenuti da un leader straniero. E’ il suo primo viaggio all’estero dal 7 ottobre, quando, con gli attacchi a sorpresa di Hamas, 1.200 persone rimasero uccise, circa 250 furono prese ostaggio, il che diede il via, in rappresaglia, all’invasione israeliana della Striscia di Gaza, giustificata all’inizio, assurda e insulsa dopo 10 mesi. Da quel giorno quasi 40.000 civili palestinesi (2/3 donne e bambini) sono morti nei bombardamenti dell’IDF, secondo le autorità sanitarie di Gaza, che però non dicono quanti erano i combattenti.

Questo scenario crea una combinazione ad alto rischio per il viaggio di Netanyahu a Washington. Deve barcamenarsi tra la necessità di ottenere dall’America un sostegno bipartisan, cercando di non alienarsi una delle due fazioni del Congresso. La consolidata posizione di Harris come candidata dei democratici alla Presidenza influenzerà come ovvio il supporto che Tel Aviv ha finora ricevuto. Harris è più a sinistra di Biden, come liberal, e quindi più critica nei confronti di Israele e in modo specifico di Netanyahu (in vari discorsi la vicepresidente ha detto di essere preoccupata della situazione a Gaza). Bibi deve ingraziarsi tutti, al fine di mantenere il supporto necessario nei prossimi sei mesi senza compromettere le relazioni con Trump e i repubblicani, sulla carta alleati storici dello stato ebraico.

Dal punto di vista geopolitico, il discorso del premier al Congresso rappresenta un’opportunità cruciale per Israele di riaffermare il suo legame strategico con gli Stati Uniti, essenziale per garantire il continuo sostegno militare e diplomatico di cui il paese ha bisogno. Tel Aviv si trova a fronteggiare una serie di sfide regionali: il conflitto in corso a Gaza, tensioni crescenti con il Libano e un aumento degli scontri con Hezbollah, le milizie sostenute dall’Iran. Mentre il suo discorso a Capitol Hill nel 2015 aveva come obiettivo mettere in guardia l’Occidente sulla minaccia posta dall’Iran e dal suo programma nucleare, stavolta Bibi cerca di far passare un messaggio prioritario: cosa fare ora che la minaccia è stata effettivamente scatenata (nel discorso del 2015 criticò aspramente la politica iraniana dell’amministrazione Obama, il che ha lasciato profonde cicatrici tra i democratici).

I generali e l’intelligence di Israele – unica vera responsabile del catastrofico fallimento del 7 ottobre – temono ora che il sostegno bipartitico a lungo termine a Washington, un pilastro della sicurezza nazionale, sia in pericolo. Ecco perché sarebbe stato molto meglio, invece che sbarcare a Washington nel momento della più grande tempesta politica americana degli ultimi decenni, che Bibi fosse rimasto a Tel Aviv. Ma no. Lui procede con testarda ferocia. Non ascolta le istanze della società civile. E’ cieco e sordo davanti alle manifestazioni di piazza, ad ogni shabbat, di migliaia di cittadini dello stato ebraico che protestano in solidarietà con i parenti degli ostaggi. Ignora chi lo accusa di non aver concluso un accordo di cessate il fuoco con Hamas. Sottovaluta chi gli rinfaccia di aver fatto precipitare l’economia in recessione perché tutti i giovani (e meno giovani) non vanno al lavoro ma sono in guerra a rischiare ogni giorno la vita.

Il patetico tentativo di migliorare la sua immagine come statista, con un intervento di alto profilo al Congresso degli Stati Uniti, non rafforza quindi il supporto di Netanyahu in patria e si rivelerà un rischioso gioco di equilibrismo politico, dopo mesi di tensioni e controversie con l’amministrazione Biden (l’anziano presidente ha posto decine di “linee rosse” invalicabili, ogni volta bellamente ignorate). La visita ha quindi tutte le carte in regola per esacerbare le tensioni interne negli Stati Uniti riguardo al supporto per lo stato degli ebrei invece di trovare soluzioni.

Ecco perché le critiche di progressisti e attivisti, i quali accusano il premier israeliano di non sostenere una soluzione a due Stati e di gestire male la crisi a Gaza, potrebbero alimentare ulteriori divisioni politiche e compromettere il sostegno bipartisan che Israele ha tradizionalmente ricevuto. Molti sono i segnali: manifestazioni pro-Palestina, lettere di protesta, boicottaggi da parte di oltre 50 deputati democratici che si sono rifiutati di ascoltare il discorso, tutti questi elementi confermano una crescente frattura tra i sostenitori e i critici delle politiche israeliane. “Netanyahu non doveva essere accolto al Congresso” ha detto il senatore Bernie Sanders, il più a sinistra del blocco dem. “Al contrario, le politiche del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania e il suo rifiuto di sostenere una soluzione a due stati dovrebbero essere condannati in modo deciso”.

L’America è divisa, a poco più di 100 giorni dalle prossime, storiche, elezioni per scegliere se alla Casa Bianca andrà la prima donna presidente oppure di nuovo Trump. Nel frattempo, in quella martoriata striscia di terra sul bordo del Mediterraneo, morte e distruzione non si fermano e l’allargamento del conflitto al confine nord con il Libano resta tra le possibili opzioni, nei war games preparati dall’intelligenza artificiale al Pentagono e a Tel Aviv. Per la propria sopravvivenza, ecco il punto, Netanyahu non ha dubbi, preferisce la Terza Guerra Mondiale.

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