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Euro Restaurazione



Missione compiuta. Con il secondo mandato di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Ue, la politica del Vecchio continente è destinata a scarsissimi cambiamenti, tra follie del Green deal, incertezze su lavoro, difesa comune, immigrazione. Intanto il resto del mondo va avanti, veloce.


Sul regno della baronessa Ursula Gertrud Albrecht von der Leyen il sole non tramonta mai. Cinque anni dopo, la presidente della Commissione europea riconquista il trono. Stessa maggioranza, uguali beghe, identica agenda. A dispetto dei controversi risultati conseguiti nell’ultimo lustro. E nonostante le deleterie battaglie ideologiche ingaggiate: a cominciare, ovviamente, dal green deal. Fa niente. Tutto deve cambiare perché niente possa cambiare, come i gattopardi siciliani di un tempo. E anche la felina Ursula, alla fine, rimane dov’era: cotonatissima, camaleontica, luciferina. È il ritorno dell’ancien régime. L’euro Restaurazione. Non è rimasta in sella solo lei, cavallerizza provetta. Ma pure i maggiorenti della sua coalizione, a dispetto delle cocenti sconfitte in patria: il presidente francese, baluardo dei liberali, assieme al cancelliere tedesco, giannizzero socialdemocratico.

Già, il tempo sembra non essere passato nemmeno per Emmanuel Macron e Olaf Scholz. Più intrepidi e supponenti che mai, sono riusciti a convincere i popolari ad accogliere come figli prodighi in maggioranza persino i Verdi, vessilliferi di quell’ecotalebanesimo che terremota l’industria continentale. Durante l’ultima campagna elettorale per le europee, sembrava in effetti anche il convincimento di Ursula e dei democristiani teutonici. È stata, invece, l’ennesima e magistrale impostura. Appena eletta la prima volta, nel 2019, la presidente conciona come Greta Thunberg, accolta nel Parlamento europeo da eroina: «Non possiamo perdere neppure un secondo! Dobbiamo lottare contro il cambiamento climatico». Un anno fa, ancora reitera: «Abbiamo un Green deal che rappresenta il fulcro della nostra economia e un’ambizione senza pari». Ursula si lascia prendere dalla prosopopea: «È la nostra risposta alla chiamata della storia». Per poi aggiungere, con fervore da attivista: «Il pianeta è in ebollizione. Il piano è nato dalla necessità di proteggerlo». La scorsa primavera, fiutata l’avversione degli impauriti elettori, furbescamente rimodula: «A differenza di altri, noi siamo per soluzioni pragmatiche e non ideologiche. Non c’è protezione del clima senza economia competitiva». Del resto l’avvisaglia, in Olanda, lo scorso novembre era stata chiara: Frans Timmermans, onnipotente guru green e fu commissario alla Transizione, sonoramente sconfitto dal leader della destra, Geert Wilders.

Abbiamo scherzato, invece. Chi se ne importa del popolino, terrorizzato da inutili eco patrimoniali? Il furore ideologico e tafazziano salverà il pianeta. Confermato. Non c’è dubbio. Avanti tutta. A partire, intanto, dalla minaccia più prossima e universale: le case green. Cappotto termico, nuovi infissi, riscaldamento efficiente. Spesa media: dai 40 ai 60 mila euro. Ogni Stato si deve adoperare per ridurre il consumo energetico del 16 per cento entro il 2030 e almeno del 20 per cento entro il 2035. L’assillo resta quello sintetizzato da Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia italiano: «Chi paga?». Boh. È il dirimente interrogativo che si ripropone per l’auto elettrica. Il commissario uscente al Mercato interno, Thierry Breton, dopo aver garantito le leopardiane «magnifiche sorti e progressive», finisce per ammettere: «Una quota significativa della popolazione europea non può permettersi di acquistarla». Aggiungendo: saranno distrutti «600 mila posti di lavoro». Conta destinata persino ad aggravarsi, visto il rischio di monopolio cinese. Eppure dal 2035 non potranno essere vendute diesel e benzina. Saranno rottamati i veicoli tradizionali, spalancando il mercato al Dragone. Dunque? Niente. Breton vorrebbe comunque officiare la fine del settore automobilistico europeo. Difatti, a ulteriore prova dell’irrefrenabile euro Restaurazione, Macron farebbe carte false pur di imbullonarlo alla poltrona. Ma rimane pure il lunare obiettivo generale fissato per il 2040: la riduzione delle emissioni del 90 per cento. Ursula, addirittura, «propone di inserirlo nella nostra legge europea sul clima». E rilancia, con un enigmatico «piano per l’industria pulita nei primi cento giorni del mandato».

Il suo discorso programmatico finisce per anticipare l’assoluta continuità esecrata per mesi. Nessun riferimento ai temi e alle direttive che minacciano gli impoveriti sudditi continentali. Solo un interessato accenno ai motori e-fuel, perorati ovviamente dai connazionali tedeschi. La baronessa Ursula è una moderna Maria Antonietta. «Maestà, il popolo ha fame...» dicevano all’illustre predecessora. E la sovrana: «Che mangino brioches…». I furbeschi ammiccamenti dei mesi passati sono scomparsi. Conta solo mantenere il trono. Eppure, la presidente della commissione aveva promesso tutto a tutti, come gli italici diccì dei tempi d’oro. Nonostante il titolo nobiliare, acquisito dal blasonato marito, sembrava l’austera rivisitazione di Franco Evangelisti, il ruspante segretario di Giulio Andreotti. «A Fra’ che te serve?» gli chiedeva un noto imprenditore all’inizio di ogni telefonata. Così, di rimando, la sulfurea Ursula ai popolari assicurava discontinuità. Ai socialisti concedeva più diritti sociali. Ai liberali prometteva di tenere a distanza dal centro destra. Ai conservatori garantiva la retromarcia sul green deal. Ai Verdi giurava l’esatto contrario. Tutto. E il contrario di tutto.

Il consuntivo della sua lunga stagione al potere è aggravato da fragorose cadute. La più clamorosa resta la condanna del Tribunale dell’Ue per le opacità nell’acquisto dei vaccini anti Covid: 2,7 miliardi sborsati alle case farmaceutiche senza un barlume di trasparenza. Insopprimibile tendenza reiterata nelle nomine dei fedelissimi, la cacciata di commissari e funzionari non graditi, l’ossessione per il potere. Irrilevante nella guerra in Ucraina, risibile sulla crisi energetica, impreparata sulle emergenze economiche, divisa su tutto, la beneamata Ue aveva deciso di riscattarsi con una forzosa transizione green: tappe lunari, strame di realtà, cecità geopolitica.

Nulla fa pensare che il prosieguo sarà più luminoso. Certo, sarebbe stato ben diverso avere alla guida della commissione Roberta Metsola, confermata invece presidente del parlamento europeo, non a caso con la più robusta maggioranza di sempre. Un anno fa sembrava lei la più accreditata a ricevere lo scettro della baronessa. La storica alleanza con i popolari poteva essere soppiantata da un patto con i conservatori, guidati da Giorgia Meloni. Sognavano di passare dalla «maggioranza Ursula» alla «maggioranza Roberta». C’era piena sintonia. Con il presidente del Consiglio italiano, del resto, l’intesa è sempre stata eccellente. «È una tipa tosta, coraggiosa e determinata» lusingava la politica maltese. Insomma: bipolarismo al posto del consociativismo. Invece, lo scorso giugno l’avanzata del centro destra non è stata abbastanza impetuosa. Meloni a parte, le elezioni europee hanno ridimensionato ma non annichilito le speranze di liberali e socialisti. Ecco, quindi, l’eterno ritorno dei soliti noti. Sebbene Metsola abbia già dato prova di buonissima volontà, concedendo a Ecr due vicepresidenze, tra cui quella assegnata alla meloniana Antonella Sberna.

Alla fine, dopo lunghi tormenti, Fratelli d’Italia ha votato contro l’euro Restaurazione. Esattamente come cinque anni fa. Del resto, da allora, nulla è cambiato. Aggiungersi alla maggioranza di sinistra sarebbe stato indigeribile. Meloni resta la leader più votata d’Europa, con la solida prospettiva di venir rieletta anche per il secondo mandato. Mentre l’asse franco-tedesco, che da sempre determina i destini continentali, s’è incrinato. A Berlino i socialdemocratici sono destinati a diventare marginali. E a Parigi l’arrivo del governo di destra sembra solo rimandato.

Certo, la machiavellica presidente si conferma una campionessa di voltafaccia e incoerenza. Ma Ursula e Giorgia sono comunque obbligate a intendersi. Gli alfieri della maggioranza a Bruxelles restano i socialisti di Scholz e i liberali di Macron, ovvero i due più acerrimi nemici di Meloni. Ma presto la baronessa sarà costretta a cambiare cavalli. Senza nemmeno sgualcire l’amata tenuta da cavallerizza.

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