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Campiello, la libertà è fatta di differenze

Federica Manzon è per la seconda volta finalista al Campiello. La prima è stata nel 2011 con “Di fama e di sventura”, quando aveva appena trent’anni; ora ci riprova con “Alma”, un romanzo che racconta Trieste, ma soprattutto l’idea di confine, declinata in diverse modalità.

“Alma” sembra approfondire un tema che era già apparso in “Il bosco del confine”.

«“Il bosco del confine” era una novella pubblicata per un piccolo editore, ed è stato l’occasione per prendere coraggio e raccontare un mondo che mi interessa da sempre. Il confine ha qualcosa che sento appartenermi, ma ho sempre avvertito la difficoltà di raccontare questa complessità. Cominciare a farlo da un punto di vista più marginale, come in “Il bosco di confine”, mi è servito a scrivere “Alma”».

Trieste oltre a essere per definizione città di confine è anche città estremamente letteraria. Questo rendeva più difficile farne la protagonista?

«Non sono nata a Trieste, ma è la città in cui ho studiato, in cui sono rimasta, in cui scrivo i miei libri. La amo di un amore che non saprei giustificare. Scrivendo questo libro mi sono anche interrogata su cosa rappresentasse per me Trieste, perché fosse così legata alla mia scrittura. Da un lato c’è il mare come regalo di libertà, di possibilità di essere qualsiasi cosa. Dall’altro quest’idea del confine, non solo geografico. Ci sono confini più impalpabili che attraversano la città: quelli linguistici, quelli tra normalità e malattia incarnati dall’ex manicomio di San Giovanni. È una città di differenze mai pacificate, che va in direzione contraria alla retorica dell’inclusività, che molto spesso è uniformità. A Trieste mi sembra che le differenze stiano insieme, in modo anche un po’ litigioso, ma mantenendo le loro caratteristiche. E questo mi ha sempre incuriosito e lo sento come un regalo di libertà».

E culturalmente?

«Solo allontanandomi da Trieste mi sono resa conto che la cultura triestina in cui mi sono formata, che possiamo chiamare mitteleuropea, ma è più vasta perché comprende i Balcani e arriva alla Russia, non è la stessa del resto della nazione».

Quanto ha prestato di suo al personaggio di Alma?

«Mi riconosco soprattutto nell’inquietudine dell’andare, del tornare. Alma è la sua città, è Trieste, la ama costantemente, però non ci vive anche se ci torna sempre. Ha ereditato dal padre l’elemento del confine, che le fa sentire sempre la presenza di un altrove alle porte, che chiama, che fa paura, che incuriosisce; che quando ci si ferma da una parte fa sentire il richiamo dell’altra».

Il padre di Alma rappresenta il sogno della unità, della convivenza tra popoli diversi. Fallisce.

«Per me il padre di Alma era anche l’occasione per capire cosa è accaduto a chi ha perso il proprio Paese, la propria identità. Ho conosciuto molte persone con padre croato, madre serba o bosniaca o viceversa che mi dicevano: non so cosa sono, ero jugoslavo ma ora non ho identità. Il padre di Alma è figlio del sogno jugoslavo, dell’idea di fratellanza, dell’unità dei popoli, con quel suo passaporto rosso jugoslavo che era l’unico che permetteva di muoversi tra i due blocchi. Dice sempre alla figlia che la cosa più importante è la libera circolazione delle persone, però con l’andare avanti del governo di Tito le dirà che ancora più importante è la libertà di pensiero».

Il libro prova a raccontare la guerra nei Balcani senza l’ansia di giudicare.

«Mi sono occupata di quella guerra per tanto tempo, ho parlato con tante persone che l’hanno vissuta. Credo sia un tema che continua a riguardarci, anche se è difficile da affrontare. Dovremmo interrogarci tutti sulle conseguenze di una pace frettolosa, che ha tirato delle linee veloci tra buoni e cattivi e la cui principale conseguenza è stata identificare tutto il popolo serbo con il suo governo. Per questo mi interessava raccontare la guerra da Belgrado, per capire cosa accade alle persone che si trovano a nascere in un Paese che ha un governo scellerato. Magari gran parte di quelle persone quel governo non lo condividono, ci lavorano contro, però al contempo quello che viene demonizzato è anche il loro Paese che amano perché ne conoscono l’arte, la letteratura, la cultura. Ho sempre notato il fatto che chi viene da Sarajevo, chi c’è stato durante l’assedio, racconta quello che è stato, mentre tutte le persone che io conosco a Belgrado non provano nemmeno a raccontare quella complessità, sicuri di non essere capiti. È una lezione che dovrebbe servirci anche per la guerra in Ucraina».

Secondo Campiello per lei.

«Amo molto il Campiello anche perché non crea nessuna ansia. L’idea che ci siano 300 lettori comuni sparsi per l’Italia e che nessuno sa chi sono, che non possono essere influenzati in nessun modo, rende secondo me il Campiello più bello per gli autori rispetto ad altri premi, che prevedono solo una giuria di critici o in cui gli editori possono lavorare perché il proprio candidato vinca. Qui sai che sei stato selezionato da lettori specializzati e sei grato, ma poi a decidere sono i lettori comuni».

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