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È scoccata (finalmente) l’ora della piattaforma di Stato per i referendum digitali

Eravamo, fino a qualche tempo fa, in questo scenario: era possibile, per i comitati promotori dei referendum, avvalersi di piattaforme digitali per la raccolta firme, ma non della promessa e agognata piattaforma di Stato (pure prevista dalla legge che aveva introdotto questa fattispecie per incentivare la raccolta firme stessa in occasione di referendum). Per raggiungere nella maniera più rapida possibile la soglia delle 500mila firme necessarie, anche attraverso uno strumento digitale, i comitati promotori erano costretti – dunque – a un investimento significativo: pagare un soggetto privato per usufruire del servizio (che funziona comunque attraverso SPID), con costi che si aggiravano intorno all’euro per ciascuna firma raccolta, autenticata e validata presso gli uffici comunali. Adesso, finalmente, non sarà più necessario: è stata inserita in un dpcm – infatti – la specifica per cui la piattaforma di Stato (già promessa ai tempi del governo Draghi, con la vigilanza del ministero per la Transizione digitale guidato da Vittorio Colao) risulta attiva e disponibile. Al momento, la sorveglianza della piattaforma stessa è deputata al ministero della Giustizia.

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Piattaforma referendum digitali, ora anche lo Stato fa la sua parte

La svolta era attesa, anche se – soltanto nel mese di maggio 2024 – con un tuffo al cuore avevamo notato che la piattaforma (disponibile inizialmente in una versione beta) non risultava più online. Si trattava, con ogni probabilità, di verifiche propedeutiche al lancio, che è potuto avvenire proprio in queste ultime ore.

«La piattaforma rappresenta un’innovazione cruciale per la partecipazione politica in Italia – ha spiegato il ministro della Giustizia Carlo Nordio – e pone il ministero e il nostro Paese all’avanguardia nell’uso delle tecnologie digitali a supporto della democrazia». Dal momento in cui il segno del governo è cambiato, con la presidenza di Giorgia Meloni, la piattaforma per la raccolta delle firme digitali era stata inizialmente seguita dagli uffici del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla transizione digitale, Alessio Butti. Poi, però, l’iniziativa è passata agli uffici del dipartimento per l’innovazione tecnologica del ministero della Giustizia.

Bisogna dare atto che questa vittoria – arrivata con quattro anni di ritardo rispetto al primo successo – è da ascrivere a chi come l’Associazione Luca Coscioni o il deputato di PiùEuropa Riccardo Magi ha condotto la battaglia sia all’interno del parlamento, sia fuori dal parlamento (spesso con iniziative clamorose, come scioperi e sit-in che Giornalettismo ha sempre seguito con molta attenzione). Ma – visto anche quanto accaduto in occasione delle ultime elezioni europee – siamo ormai consapevoli che il ritardo con cui è stata approvata la piattaforma di stato per la raccolta firme non ha fatto altro che rimandare ulteriormente un altro problema, ovvero quello della messa a disposizione di uno strumento analogo per la validazione delle firme per la presentazione delle liste alle elezioni politiche. Un tema che, ad oggi, nessuno vuole ancora affrontare.

Al momento, non c’è stata ancora ampia condivisione da parte del governo sui meccanismi di funzionamento della piattaforma per la raccolta delle firme per i referendum digitali. Tuttavia, la validazione dovrebbe seguire i principi che hanno portato già diversi soggetti privati ad aiutare i comitati promotori di consultazioni (poi arenatesi in Corte Costituzionale) come quella per la cannabis legale e per l’eutanasia legale: accesso attraverso SPID, trasmissione automatica agli uffici anagrafe dei comuni e snellimento della procedura di deposito delle firme stesse (che, a questo punto, dovrebbe essere automatica).

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