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Alcol, abuso giovane



Da Nord a Sud, cresce il numero di ragazzi - anche minorenni - che s’ubriacano fino a stare male. Le ragioni? Un modo per sfuggire alle pressioni familiari, scolastiche e sociali. Ma anche per sentirsi parte di un gruppo. Insomma, è una sorta di «auto-medicazione» di cui però non si percepisce la pericolosità. E per questo in pochissimi cercano aiuto.

Napoli, Largo San Giovanni Maggiore Pignatelli. Pieno centro storico. Emblema di una città dalle due facce. Di giorno affollata da turisti che qui arrivano per ammirare una delle più importanti basiliche partenopee, la cui fondazione risale all’epoca paleocristiana. Di sera luogo d’elezione di scorribande di giovani e giovanissimi che bevono, a volte, fino a perdere conoscenza. «Qui è diventato purtroppo uso comune, arrivati a una certa ora, chiamare nel fine settimana il 118 perché qualcuno si sente male» spiega il gestore di un locale che, sottolinea, è uno dei pochissimi a non servire alcol a minorenni. Effettivamente, basta un giro la notte per capire quanto questa attenzione sia una rarità. Qui gruppi di ragazzini entrano ed escono dai bar chiedendo ora birre, ora cocktail e sempre più spesso «shottini». «Io ho 15 anni» racconta un ragazzo evidentemente alterato. «Mica è la prima volta che mi riduco così, brò!» continua ridendo. E poi insiste: «Provate questo shot. Si chiama il casertano. Costa solo un euro». E questo è l’altro elemento da non dimenticare: i costi bassissimi. Se per lo shot basta un euro, un gin tonic si può trovare a quattro. Poi, per risparmiare ulteriormente molti ragazzi arrivano già muniti di bottigliette di plastica piene di vino e superalcolici. Una situazione emergenziale comunissima in tutta Italia, soprattutto nei grandi centri urbani.

Dal Sud ci spostiamo al Nord, a Milano. Nella zona delle Colonne di San Lorenzo, non lontano dai Navigli, la situazione è uguale. A Roma identico copione. Ad aggravare il quadro ci sono i mini-market, gestiti spesso da cittadini bengalesi, che restano aperti fino a tardi e non hanno alcuna remora a vendere anche a minorenni bottiglie (in vetro) di ogni genere. La conferma arriva accompagnando un quattordicenne (d’accordo con noi) a San Lorenzo, quartiere affollato di studenti nel cuore della Capitale: nessun commerciante, nonostante la visibile età, si è rifiutato di fargli fare acquisti. E così il ragazzo ha comprato in un negozio due bottiglie di vino dal costo di circa sette euro l’una, in un altro una bottiglia di gin per meno di 10 euro. In entrambi i casi il medesimo copione: nessuna domanda sull’età, nessuna richiesta di documenti.

Considerata la situazione è semplice intuire come mai l’alcolismo tra i più giovani sia diventato un’emergenza dilagante. Sono i numeri ad attestarlo: tutti i report ufficiali sono concordi nel ritenere che proprio il nostro Paese sia uno di quelli dove il fenomeno dei binge drinkers (ragazzi che bevono alcolici e superalcolici, ubriacandosi fino a stare male) è più diffuso. Nella fascia di popolazione tra gli 11 e 25 anni che consuma alcol secondo modalità definite «a rischio per la salute» (un milione e 370 mila), i minorenni sono 620 mila, senza grande differenza tra maschi e femmine. La stragrande maggioranza, dunque. Il concetto che l’alcol sia una sostanza psicoattiva, capace di creare dipendenza e perfino cancerogeno non viene preso in considerazione. Questo nonostante l’Oms da tempo lo abbia inserito in testa alla top ten delle sostanze di abuso e, nel suo ultimo rapporto, sia tornata a lanciare con forza l’allarme chiedendo un maggiore impegno dei governi per il raggiungimento dell’«Obiettivo 3.5» dell’Agenda Onu 2030, così da ridurre il carico sanitario e sociale attribuibile all’uso di sostanze.

Resta, però, la domanda delle domande: per quale ragione persiste un uso così smodato di alcol? «I motivi possono essere tanti» riflette Andrea Fagiolini, ordinario di Psichiatria all’Università di Siena. «Innanzitutto è un’espressione di ribellione: bere alcol viene percepito come uno strumento per esplorare nuove sensazioni, opporsi alle norme e ai genitori, per sentirsi liberi di fare quello che è vietato. Ma è anche frutto di conformismo. Oggi è diventato un modo per sentirsi parte del gruppo dei pari, per adattarsi, essere accettati». Ma c’è di più: «Negli ultimi anni è stato osservato che anche per i giovanissimi bere rappresenta, esattamente come per i più grandi, un sistema anti-stress. L’alcol, in altre parole, si condidera un mezzo per sfuggire alle pressioni familiari, scolastiche e sociali. Può servire come una forma di auto-medicazione per cercare di ridurre l’ansia, depressione o altri problemi emotivi. In realtà si tratta di una terribile cambiale perché chi beve non si rende conto che così facendo annulla il suo futuro».

Complementare il punto di vista di Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict): «Un altro elemento riguarda la società che abbiamo costruito, e che è pericolosamente incoerente nei messaggi. Da un lato mantiene un atteggiamento fortemente giudicante verso i ragazzi, dall’altro li considera una fetta di mercato interessante da aggredire, molto spesso veicolando messaggi normalizzanti sull’uso di alcol e di altre sostanze. I social media e le campagne di marketing con la loro rapidità di diffusione di immagini e video sicuramente non aiutano, spesso glorificando l’uso di alcol e il suo consumo in contesti sociali del divertimento giovanile. Il risultato di questa normalizzazione e sottovalutazione del problema è la minimizzazione dei rischi associati». In un quadro così complesso emerge ancora più nettamente la pochezza di mezzi delle amministrazioni locali. Solo nelle ultime settimane sono piovute nuove ordinanze a Messina, Viterbo e Udine, che vanno a sommarsi a quelle in essere nelle località più turistiche come Roma, Milano, Napoli, Firenze, Venezia e Genova. Il mood è sempre punitivo: divieto assoluto - a partire in alcuni casi da mezzanotte in altri dalle due di notte - di vendita e somministrazione di alcolici e superalcolici per tutte le attività commerciali. A Viterbo si è andati anche oltre: fino al 30 settembre è addirittura vietato sedersi, sdraiarsi o dormire «sul suolo pubblico o a uso pubblico, sulla soglia, sulla pavimentazione, sui muretti, sui gradini posti all’esterno degli edifici pubblici e privati, scolastici e universitari, dei monumenti, delle fontane e dei luoghi di culto, sugli arredi urbani».

Il problema, però, è che tutto questo non basta. «L’atteggiamento punitivo e proibitivo, da solo, non è mai stato uno strumento efficace. Occorre mettere regole chiare e, se necessario, adoperarsi per farle rispettare, ma parallelamente è assolutamente prioritario tornare a investire nei percorsi educativi. In ottica parlamentare è giunto il momento di mettere davvero mano alla riscrittura del sistema di prevenzione e dei percorsi formativi ed educativi», sostiene ancora Squillaci. Intanto gli effetti di un sistema fuori controllo animano la cronaca. «Spesso quando si beve senza limiti si finisce col far scaturire risse e aggressioni anche per motivi stupidi. A Milano, ma non solo qui, è un continuo», racconta Diego Willer, uno dei più famosi trapper emergenti della scena musicale italiana, che conosce molto bene la realtà della periferia lombarda. «Se poi ci aggiungi che molti ragazzini, anche non appartenenti alle cosiddette “baby gang”, vanno in giro con coltellini, capisci bene che il rischio è dietro l’angolo. Magari chi esce con una lama lo fa per difesa, magari neanche vuole usarla, ma poi nel momento in cui sei poco lucido basta un niente, basta un tipo che ci prova con la tua ragazzina, e parti con una coltellata».

Pochi giorni fa è accaduto a Milano Marittima, in Romagna: dopo la lite in un locale e il diverbio all’esterno, un ragazzo di 21 anni è stato accoltellato. Stessa situazione al Sud dove in un bar di Volla, alle porte di Napoli, un ragazzo di 15 anni è stato aggredito da un coetaneo nello stesso modo mentre era con gli amici. «È evidente che politiche basate su ordinanze anti-movida non possono risolvere situazioni di questo genere», conclude Willer. Il vero problema, però, è che gli adolescenti non sono affatto consapevoli dei rischi a cui può condurre l’alcol. D’altronde solo una minuscola percentuale (4 per cento) dei 400 mila interessati finisce in cura. «Figuriamoci quanti possono essere i minorenni», racconta a Panorama un’associazione di Alcolisti anonimi attiva in Toscana. «L’alcolismo è una vera malattia, e purtroppo nei nostri gruppi di auto-mutuo-aiuto viene una piccola minoranza. Il primo passo è capire che una sostanza anche se è legale può creare dipendenza. Pochi alcolisti però maturano la consapevolezza di avere un problema. Consapevolezza praticamente assente nei ragazzini».

A essere a rischio sono anche le capacità intellettive per chi fa uso di alcol, come rivela la letteratura scientifica. «Nel cervello delle persone che abusano di alcool, si osservano sia cambiamenti funzionali sia cambiamenti strutturali», ragiona Fagiolini. «Parliamo nel primo caso di riduzione dell’attenzione, ma anche di deficit cognitivi più persistenti e gravi. Nel secondo caso, invece, si osservano una riduzione del volume cerebrale complessivo, con perdita sia di materia grigia sia di sostanza bianca». Una situazione critica, dunque. Per la quale non c’è motivo di brindare.

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