World News

La casa segreta di Mafalda creatura del bosco

La casa segreta di Mafalda  creatura del bosco

foto da Quotidiani locali

Io e Mafalda ci incontriamo sempre a mezzacosta, sul grande prato della fiera, sotto l’occhio vigile del castello illuminato da faretti, tinto del colore della luna che sorge.

Ma in queste settimane l’attrazione non è il castello; in pochi imboccano la salita polverosa che conduce in cima alla collina, e di solito sono coppiette che vanno a infrattarsi negli angoli bui della cava per baciarsi e scambiarsi dolcezze che scivolano sulle pareti argillose e arrivano alle orecchie degli altri come mormorii insensati.

Mafalda è l’unica tra noi che scende anziché salire. Viene da un casolare che si trova nei boschi, oltre l’uliveto e i calanchi. Ogni anno, per otto giorni di fiera, fa su e giù lungo la strada senza luci che scende dalle montagne, e se all’andata il cielo è ancora chiaro e le automobili vanno ancora avanti e indietro, al ritorno – siamo quasi sempre le ultime a scendere dalle giostre, le ultime a lasciare il grande prato dopo aver bevuto l’ultimo sorso di Coca–cola sgasata – i boschi sono neri e fitti come il vello di una pecora, nessuna automobile in vista, soltanto Mafalda che si allontana pescando caramelle da un sacchetto di carta rosa.

Per anni io l’ho seguita con la mente

Per anni io l’ho seguita con la mente: eccola sul primo tornante, sul secondo, terzo, quarto, la sua lunga ombra proiettata dai lampioncini dell’area picnic, e poi è ai piedi del castello, attraversa l’uliveto argenteo e la cava tappezzata di conchiglie, fossili di madreperla, si immerge nell’erba alta in cui abitano le lucciole. La immaginavo camminare lungo la Provinciale deserta, nella notte fitta di rumori, di versi e fruscii: sulle colline ci sono volpi, tassi, cinghiali, forse lupi, creature sussurranti e acute, con occhi più sensibili dei nostri. Povera Mafalda, costretta a procedere silenziosamente sulle sue scarpe antiquate, legate alla caviglia da un cinturino in pelle.

Adesso, sedute spalla a spalla davanti alla pista degli autoscontri, guardo di sottecchi il viso appuntito della mia amica.

Ci siamo viste otto volte all’anno per otto anni; di lei so che ama la Coca–cola e lo zucchero filato e le caramelle a forma di uovo e di conchiglia, che compra con monete e banconote sempre stropicciate, un po’ sporche di terra; so che i colpi del tirassegno la fanno sussultare e assumere uno sguardo inquieto, anche se ha una buona mira: al gioco dei barattoli ha vinto per me una bambola Tanya, due racchette con una pallina fluorescente – l’ultimo giorno di fiera l’abbiamo persa nelle ombre del prato, e l’abbiamo ritrovata l’anno dopo sbiadita e coperta di morsi –, un portachiavi a forma di stella.

So che sulla calcinculo formiamo una coppia formidabile: io la spingo, aggrappata al suo seggiolino, i suoi gomiti lentigginosi che mi sfiorano gli stinchi; lei vola allungandosi all’infuori, e i suoi capelli rossi si allargano come un ventaglio nell’aria della sera. So che quando afferra la coda di volpe la tiene in alto, perché tutti la vedano, e poi si volta sorridente, incurante dei capelli che le entrano in bocca e sugli occhi, e ci guardiamo felici, la fiera come un turbine colorato intorno a noi.

Le cose che invece non so di lei: il suo cognome, dove abita, la scuola che frequenta, il suo film preferito. Dice: «Questo è il Picchio Verde; questo è il Rigogolo», mettendo un’enfasi particolare sui nomi e senza mai sbagliare, ma non conosce nessuna delle canzoni che escono dalle casse. Una ragazza dei boschi scesa alla fiera.

«Mafalda» la chiamo ora, toccandole i capelli, che sono setosi e profumano di verde, di bosco rugiadoso.

Lei si volta, e io le mostro le chiavi

Lei si volta, e io le mostro le chiavi. «Stasera ti porto a casa. Ho preso la patente» dico orgogliosa, facendole tintinnare.

Mafalda scoppia a ridere, una risata aguzza come dentini che mi mordicchiano la pelle. «Sono seria» protesto. «Non voglio che tu vada nel bosco da sola».

Lei distoglie il viso da me. Io guardo le luci – rosa, giallo, verde, azzurro, rosso, di nuovo rosa – che si riflettono nei suoi occhi e sul bottoncino lucido che le chiude l’abito sul petto. Conto le lentiggini sparse sulla punta del suo naso. «Dai» insisto.

Mafalda si volta e mi guarda a lungo. Mi sembra che mi stia facendo una domanda che però non capisco, e perciò non posso rispondere.

«Vieni con me» dice infine, alzandosi dalla panchina. «Saliamo al castello».

«Oh» dico io, e mi si accappona la pelle. Ho paura della salita di notte; si dice che una banda di briganti-fantasma infesti la pista. Li si vede all’improvviso, nel buio spaventoso tra un lampioncino e l’altro.

«Non preoccuparti» dice Mafalda, come leggendomi nel pensiero. «Anche se li guardi, loro non ti faranno niente».

«Che cosa?!» strillo, ma lei mi ha già voltato le spalle e se n’è andata, quindi non mi resta che seguirla.

Non vedo i briganti, ma sento fruscii e frulli d’ali

Non vedo i briganti, ma sento fruscii e frulli d’ali di creature invisibili, e un cervo volante mi vola sul braccio. In silenzio oltrepassiamo il portale di pietra del castello.

Mafalda mi precede senza mai voltarsi. Temo di averla offesa. Adesso l’immagine che ho cullato per tutto il giorno – io e lei in viaggio, le nostre voci allegre mentre il bosco scuro scivola via senza toccarci – è diventata un dolorino fastidioso.

Camminiamo sotto gli alberi finché davanti a noi non si aprono il cielo violetto, l’uliveto e il prato che dà sui calanchi d’argento. Dietro sta sorgendo la luna, una bella luna a mandorla.

Quassù non arrivano i suoni e le luci della fiera. Bisbiglio: «Mafalda, scusami».

Lei si volta e ride la sua risata aguzza. «Non ti devi scusare! Volevo solo mostrarti la mia casa».

Mi guardo intorno, ma non ci sono abitazioni nei paraggi. Anche la cava tace: nessuna coppia intenta a baciarsi – solo i grilli, un picchio tra i rami, le stelle che si accendono in silenzio.

«Mafalda» dico incerta. «Non prendermi in giro».

La sua voce, un guaito: «Non ti prendo in giro. Io vivo qui».

«Nessuno può vivere qui! Non ci sono case!» ribatto arrabbiata. Mi torna la pelle d’oca, non per i briganti ma per la stranezza di questa situazione.

Mafalda dà ancora le spalle al sentiero che conduce ai calanchi, dà le spalle alla luna. Nel suo viso ombroso, silvano, gli occhi brillano come stelle, pieni di vita e fame. Un sorriso malizioso le tende le labbra, le guance e gli occhi. Pure le ciocche legate sulla nuca si allungano, come orecchie di bestia fulve e frementi.

«Perché pensi solo alle case degli uomini» latra.

«Ah!» urlo, quando lei balza sull’erba. Con un ultimo guizzo, la sua coda scompare tra gli arbusti. E io rimango sola nella notte.

***

L’autrice: Sonia Aggio

[[ge:gnn:mattinopadova:14527063]]

Nata a Rovigo, Sonia Aggio ha 28 anni. È laureata in Storia e lavora come bibliotecaria. I suoi scritti sono stati segnalati più volte dalle giurie di premi importanti come il Premio Calvino e il Premio Campiello Giovani. Tra il 2018 e il 2020 ha collaborato con il lit-blog “Il Rifugio dell’Ircocervo” e, nel tempo, ha pubblicato diversi racconti. Con Fazi Editore, nel 2022, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Magnificat”, che ha avuto un ottimo riscontro di critica e di pubblico. Quest’anno ha pubblicato, sempre con Fazi, “Nelle stanze dell’imperatore” con il quale ha vinto il Premio Comisso Under 35 ed è entrata nella dozzina del Premio Strega.

Читайте на 123ru.net