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La lunga estate degli insegnanti



Il mito dei tre mesi di ferie è destinato a rimaneretale, perché non c’è un insegnante che stacchi il giorno 8 giugno per riprendere il giorno 8 settembre, ma allo stesso tempo non è possibile sradicare questo pregiudizio dai discorsi di chi intende continuare a ripeterlo volendo sarcasticamente screditare il lavoro di chi, tutto sommato, è evidente che si goda la vita, non come chi lavora per davvero. Sono posizioni incancrenite, pregiudiziali e sostanzialmente false perché inesatte, ciononostante il docente che si lagna della pausa estivanon si può sentire, perché pur non essendo di 90 giorni filati come millantato da chi la sa lunga, si tratta indiscutibilmente di una sospensione dal lavoro lunga, pur considerandoscrutini, scrutini integrativi, esami di maturità, collegi docenti finali e iniziali, commissioni al lavoro per l’offerta formativa rinnovata, per la formazione delle classi prime, per la gestione del PNRR e così via.

Non sono tre mesi, ma mediamente sono due pieni, un vero privilegio se rapportato ad altri mestieri, ad altre vite. E che cosa fanno i docenti in questo tempo?

Prima di tutto, il profilo del docente è plurale. C’è l’esercito dei precari, per cominciare: per loro l’estate è un’incognita, tra disoccupazione, concorsi, burocrazia, chiamate e incarichi che spesso sono tardivi e non consentono di preparare l’anno che verrà e così che sarà vissuto professionalmente ancora una volta in rincorsa, conoscendo i libri di testo insieme agli studenti e i colleghi di istituto ad anno iniziato, o poche oreprima. Insomma, una precarietà professionale e umana che non garantisce alcuna serenità a chi, per un anno intero, sarà invece impegnato nell’ennesima corsa a ostacoli dovendo però garantire professionismo nella gestione del regista del clima di classe e a cui si chiederanno stabilità, preparazione, pianificazione, lungimiranza.

Ci sono poi i docenti di ruolo, quelli che hanno una cattedra e che a giugno sanno, verosimilmente, cosa insegneranno e a chi. Per loro l’estate scorre tranquilla, forse anche troppo, perché in questo periodo sarebbe opportuno che tutti i docenti lavorassero sulle proprie conoscenze, leggendo e preparando ciò che potrebbero insegnare diversamente, o meglio. Inutile negarlo, nei corridoi delle scuole si sentono sempre le solite lamentele: il programma di storia non arriva al secondo Novecento, le letterature vanno a rilento, le scienze non toccano tematiche attuali, i libri di lettura sono sempre gli stessi.

Che fare, se non attivare i docenti a ciò che dovrebbero svolgere in autonomia, cioè studiare? Il tempo c’è, come è evidente a tutti,per cui forse sarebbe utile iniziare a chiamare smartworking tutto ciò che si fa fuori dalle mura scolastiche, per inquadrarlo e richiederlo, in cambio di un adeguamento salariale congruo, proprio per incentivare i docenti a studiare, in autonomia e senza la forzatura dei corsi di formazione, spesso inutili carrozzoni, e per evitare che l’aggiornamento, la lettura, il confronto siano attività esclusiva di chi la farebbe comunque. Un tema caldo è proprio questo: un docente che studia per la società attuale perde tempo, non fa nulla, mentre un impiegato d’azienda in smartworking va sacralmente lasciato in pace: sono posizioni anche in questo caso critiche, semplificatorie e riduzionistiche che vanno quantomeno bilanciate. Ne conseguirebbe un miglioramento delle condizioni salariali degli insegnanti, ma si uscirebbe anche dall’equivoco delle ore di lavoro settimanali svolte da chi insegna, abituato da sempre a lavorare a casa ore e ore per correggere, formarsi, prepararsi ben prima che lo smartworking esistesse, senza che tutto questo tempo sommerso fosse riconosciuto, anzi.Chiamare smartworking il lavoro extrascolastico consentirebbeai docenti di continuare a studiare, incentivati e legittimati a farlo, evitando di appoggiarsi per 40 anni su ciò che hanno studiato all’università e basta. Perché se un docente non ha affrontato Mario Luzi in università, o ha studiato male Luigi Pirandello o il Purgatorio quando aveva vent’anni, ha tutto il tempo – è il caso di dirlo, si parla proprio del tempo! – per rimediare, leggere, studiare. Sia chiaro che il discorso vale per il quadro generale, non per chi fa già abbastanza, per chi vive con passione, con dedizione, con professionalità il proprio compito, però è ora di smettere di lasciare alla buona volontà la preparazione, l’aggiornamento e lo studio di chi, invece, ha scelto di studiare e di insegnare a farlo per mestiere.

Il tempo c’è, soprattutto in estate, e i docentihanno ben altro di cui lamentarsi, a cominciare dagli stipendi, non solo inadeguati, ma addirittura ingiusti e – in alcune parti d’Italia – insufficienti a mantenersi decorosamente, senza aiuti. E ancora, connesso agli stipendi c’è il tema del riconoscimento sociale, ormai venuto meno per diversi ruoli – si pensi al medico sovrastato dalle ricerche su Wikipedia, per dirne una – e che ha investito anche la figura del docente, ormai un esempio da non imitare, uno che vive solo della materia che insegna, uno che non ha capito che la vita è fuori dalla scuola, uno che insegna cose inutili, uno che “non capisce mio figlio”, uno che prende poco perché lavora poco, d’altronde lavora 18 ore a settimana e sta sotto l’ombrellone tre mesi ogni estate. E’ tempo di pace sociale tra la scuola e chi ne parla, ma è anche tempo di richiedere – e valorizzare – il ruolo del docente che nella sua professione, e nella sua vita, deve trovare il tempo per leggere, studiare, scoprire, riflettere. Come insegnare a farlo, altrimenti? Buone vacanze di otium, cari docenti.

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