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L’archeologia nel presente dei surrealisti italiani



Una corrente troppo a lungo trascurata ma che ha fatto la storia del Novecento. Da Giorgio de Chirico a Gaetano Pesce, le opere di oltre 70 artisti nelle sale del Mart di Rovereto.

Molto notevole è il lavoro di Giulia Tulino, giovane studiosa uscita dal dottorato di ricerca della Sapienza (a proposito della assenza di atenei italiani fra i primi 100 al mondo), su La Galleria L’Obelisco (De Luca editore), una parte centrale della contro-Storia dell’arte del Novecento, rimossa e occultata dalla dittatura del mercato. È una vicenda ricca di sorprese fra artisti memorabili e dimenticati, dei quali sopravvive soltanto Alberto Burri. Eppure la storia della galleria, già raccontata nel 1970 da un grande critico come Luigi Carluccio, capace con la Metafisica, Francis Bacon, il simbolismo e Domenico Gnoli, di segnare alcune tappe fondamentali del Novecento, ci appare leggendaria nonostante la rimozione, la cancellazione di un numero sorprendente di artisti, puntualmente rianimati dalla Tulino e in gran parte riproposti nella mostra Surrealismi al Mart di Rovereto.

Per i due fondatori de L’Obelisco, Irene Brin e Gaspero Del Corso, si trattava di documentare, soprattutto sugli esiti di Dalí e di Magritte, la temperatura onirica del Surrealismo in Italia attraverso il percorso di alcuni artisti largamente attivi dal 1940 al 1970. È un racconto vivo, e ci dice cosa fu L’Obelisco: «La storia dell’Obelisco è una storia tutta all’italiana. Comincia, come tante altre, l’8 settembre del 1943, il giorno che ha modificato tante esistenze. Prima di quella data, né Brin né Del Corso avevano mai pensato che si potesse vivere vendendo opere d’arte. Le opere d’arte erano semmai cose da comprare, potendo. O da farsi regalare. […] Lei scriveva su giornali e riviste e l’avevano soprannominata la “fustigatrice dei costumi”. Aveva, infatti, un occhio straordinario per scoprire i vizi dietro la facciata, tra le quinte, nelle pieghe delle cose e delle persone e una lingua, per esprimersi, ricca di parole preziose poco usate, che perciò restavano appiccicate alla memoria come certe immagini dei feticci restano trai ricordi di un viaggio in paesi lontani. […]. Nel settembre 1943 firmava già con uno pseudonimo: Irene Brin. Un nome inventato da Longanesi, audace per i tempi che correvano. […].

Così erano in due in quell’inverno del 1943 a portare un falso nome, lei e Gaspero. Dopo aver combattuto intorno al Forte Aurelio, il Maggiore Gaspero Del Corso aveva spezzato la mitragliatrice del reparto, ripiegato la bandiera, nascosta, poi murata nella parete di una soffitta. Ma Gaspero doveva restare in città, dove troppa gente conosceva e poteva riconoscere il brillante ex ufficiale del Re. […]. “E tu chiamati Maggiore” gli disse una sera Savinio. Ecco: Onorino Maggiore, napoletano di diritto e di fatto. Non ci volle molto a ottenere carte false […]. Lo smercio di opere d’arte prese forma senza un programma preciso. Irene aveva appeso alle pareti certe cose deliziose che aveva in casa: regali di nozze (ai parenti ricchi che offrivano argenteria aveva chiesto dei Picasso, dice Gaspero) o acquisti fortunati fatti nei primi viaggi dopo le nozze, avvenute a Sasso di Bordighera nel 1937: tre disegni di Picasso, altri di De Pisis, uno di Matisse e un piccolo olio di Morandi […]. A quelli di casa Del Corso se ne aggiungono altri, provenienti dalle collezioncine degli amici e dagli studi di amici artisti, Gentilini per esempio […]. Per suggerimento dei Del Corso, un certo Valli, che si interessava un poco d’arte e pubblicava la rivista Documento, patrocinò una vera e propria galleria d’arte. La facciata l’aveva disegnata Italo Cremona, che a quel tempo lavorava a Roma per il cinema […]. Un giorno un socio di Valli fece muso lungo a Gaspero perché passando alle nove di mattina in galleria non lo aveva trovato al suo posto dì lavoro. Bastò perché Irene e Gaspero decidessero che era venuto il momento di avere una galleria tutta loro, da aprire e chiudere quando volevano, da metterci dentro quello che volevano, senza dover rendere conto agli “estranei”. La chiamarono L’Obelisco perché la prospettiva della via Sistina è dominata sul fondo dall’Obelisco della Trinità dei Monti. La galleria fu inaugurata nel novembre 1946. L’avventura ricominciò allora da capo, con una grande mostra su Morandi, che comprendeva uno degli “autoritratti” e la famosa Natura morta con piffero quella della collezione Magnani. Andò tutto venduto. A quel punto della loro storia, alle spalle dei Del Corso c’era qualcosa che avrebbe avuto un grande effetto nel destino dell’Obelisco. Di fronte alla botteghina di via Bissolati s’era installato, dopo la liberazione di Roma, un grande comando americano tipo Fao. In tempi così difficili fu una circostanza provvidenziale: procurò utili scambi essenziali. Disegni e dipinti contro scatole di carne, tè, latte, stecche di sigarette e cioccolato. A pace fatta gli americani continuarono a visitare i Del Corso. Erano i militari di una volta, tornati alle loro vere occupazioni, nelle redazioni dei giornali e delle riviste di New York e di Chicago o nelle file della diplomazia; ma anche tipi nuovi: direttori di museo, assistenti, critici d’arte e tutto l’innumerevole staff della moda e dello styling, che subiva, di rincalzo, il richiamo dell’Italia sconfitta e geniale».

Il principale intendimento di Irene e Gaspero sarà ricercare un aspetto particolare dell’arte italiana, ovvero la linea fantastica e surreale di derivazione metafisica, composta di un nucleo di artisti che, dal 1943, entreranno in contatto, non solo di mercato, ma di visione, con loro. In realtà il Surrealismo, più di ogni altro movimento d’avanguardia, era o appariva misconosciuto o non identificato. Dalla amena ricostruzione di Carluccio parte la ricerca della Tulino che restituisce luce ad artisti colti e misteriosi come Eugene Berman o Gaetano Pompa, ancora oggi sommersi. La sua narrazione, in un ponte tra gli originali interessi de L’Obelisco e e le curiosità degli americani, collezionisti e mercanti, attraverso Peter Lindamood, conoscitore e amatore, e i critici d’arte Alfred Barr e Joseph Soby, conferma la centralità di Leonor Fini, Fabrizio Clerici, Stanislao Lepri e Giuseppe Viviani. Anche in un intreccio di moda e mondanità. Gli anni de L’Obelisco sono gli anni della Dolce vita. È un’altra storia fino a oggi non scritta, a integrazione di una consolidata considerazione per Alberto Savinio, Alberto Martini e Gianfilippo Usellini, artisti perfetti per la prima mostra a New York nel 1945, alla Julian Levy gallery, Italian Surrealists. Da lì tutto parte, anche nel rapporto difficile e complesso con De Chirico. La vera novità, e utilità, del saggio della Tulino, attraverso le mostre dell’Obelisco, è nell’analisi degli anni Cinquanta dove lampeggiano, a fianco delle prime mostre italiane di Dalí, Tanguy, Magritte e Matta, artisti «esotici» come Eugene Berman, ancora sommerso, che, con il fratello Leonid, Pavel Tchelichew e Christian Berard, diede vita all’ancora misterioso, dopo breve fortuna, gruppo di Neoumanisti o Neoromantici.

Subito dopo si precipita in un buio ancora più profondo, con i dimenticati Enrico d’Assia, Gustavo Foppiani, Enrico Colombotto Rosso, Giordano Falzoni, tutti oggi presenti nella mostra Surrealismi al Mart. Colombotto intreccia una intesa artistica e amorosa, adorante, con Leonor Fini, già al centro di un molto provocatorio e morboso ménage à trois con Lepri e Kostanty Jelenski, e mostra una immaginazione visionaria e apocalittica, tra incubi e ossessioni, tra follia e soggetti macabri, che incrocerà episodicamente il gusto di Giovanni Testori. Enrico d’Assia si muove in una fantasia archeologica e sofisticata, a metà fra il sogno (o il sonno) di Roma di Clerici e l’estasi di Mitoraj.

Giordano Falzoni, il più dimenticato e il più eclettico, fu un militante del surrealismo, in rapporti diretti con André Breton e Jean Dubuffet. Si tratta di fantasmi, dopo una vasta esposizione nei primi anni Cinquanta con la mostra Twenty Imaginary Views of the American Scene by Twenty Young Italian Artists, presentata da Helena Rubinstein a New York. Tra loro spicca, dimenticato fra i dimenticati, Gustavo Foppiani, artista piacentino che arriva a L’Obelisco nel 1954, con una cartella di meraviglie, piccole tavole preziose dove fantasie, favole e sogni si esprimono in un linguaggio figurativo mai convenzionale, in cui convivono Magritte e Klee declinati nell’aria assorta e sognante di Piacenza, ben colta dalla Tulino che parla di «archeologia del presente, distaccata da una figurazione tradizionale di ascendenza novecentista e vicina alle ricerche materiche degli anni Cinquanta, su cui, con una dolcezza rara non priva di una umana fantasiosa ironia, venne innestandosi una vena surreale».

Quante volte andai a esplorare i suoi sogni nella torre in cui aveva il suo studio, e creava mondi, tavole preparate con una superficie smaltata. Un poeta, che da Roma partì per il Carnegie International di Pittsburg, vicino a un prodigioso dipinto emigrato dalle Marche del raro maestro quattrocentesco Nicola di Antonio d’Ancona, eccentrico come un ferrarese; e per Boston, New York, San Francisco. Una fiamma da cui si generarono altri fantasiosi e meravigliosi pittori: Armodio, Cinello, Tagliaferri, Bertè: la scuola di Piacenza. Insomma: mondi perduti di cui, iniziando con lo scavo de L’Obelisco, vediamo gli incredibili reperti nella mostra sui Surrealismi al Mart di Rovereto.

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