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Viaggio nella coscienza, ritratti e aneddoti nell’Album dei rimorsi

Qualche vecchia foto, il dialogo con la propria coscienza, la domanda posta in esergo «È tutto vero?»: di qui parte il nuovo racconto di Furio Bordon, Album dei rimorsi (La nave di Teseo, pp. 176), dove già il titolo suggerisce il filo rosso che unisce i ricordi, dopo che un lungo tratto di vita è già trascorso.

È un tema, quello dello scandaglio coscienziale, non nuovo per lo scrittore triestino, che lo ha affrontato anche nel suo ultimo romanzo Il poeta e il suo mostro; qui aveva messo di fronte Oscar Wilde e Joseph Merrick, l’Uomo Elefante del Circo Barnum, la cui deformità lo aveva reso interprete ideale del ritratto di Dorian Gray, che invecchia e si deforma mano a mano che crescono i misfatti del suo modello. Il mostro rinfacciava peccati e viltà al poeta, che intanto gli raccontava la propria vita e il processo che lo aveva portato alla rovina. Ora Bordon imbastisce il processo a se stesso e al proprio colpevole ma anche «spensierato egoismo».

Che si manifesta fin dall’infanzia, alle scuole elementari dove a essere preso di mira era stato l’ultimo della classe, di famiglia povera e non scaltro, tanto da ritenersi amico piuttosto che vittima di chi lo aveva consegnato all’aggressività del gruppo.

E che viene confermato quando in un collegio estivo Furio incontra una bambina dall’aspetto nobile, la cui «disarmata superiorità» lo aveva spinto a farla oggetto di ignobili angherie, a rinfacciarle la sua bruttezza e a volerla impressionare svelandole le sue fantasiose cognizioni sul sesso, che la piccola puntualmente smonta, riportandolo alla realtà dei fatti e proteggendolo dall’ostilità di una compagna. Crescendo, il suo ego diventa più vigoroso e si scatena contro la donna di cui pur era innamorato, bellissima, appassionata e generosa, sincera al punto da non poter sopportare l’ambiente che lui aveva scelto, il teatro, le sue finzioni, il cinismo degli attori e dei registi, «le battute che non rispettavano nessuno, il gioco di irrisione, quella recita continua» che la mettevano a disagio.

Due mondi incompatibili: lei credeva nella felicità, loro flirtavano con la disperazione. Ma lui quel mondo lo amava, nonostante le sue ipocrisie, perché gli permetteva di far nascere su quel palco vergini e puttane, santi e assassini. Là le piccole crudeltà contro persone inermi o anche solo l’insensibilità nei loro confronti erano nell’ordine delle cose. Come nella vita. Infatti, in queste pagine tutto scorre liscio e l’inciampo è dato dalla coscienza, che scava nel profondo di chi s’interroga sulle dinamiche irrisolvibili del proprio comportamento, ben sapendo che la memoria, nel riandare a quei fatti, li interpreta alla luce di quanto è successo in seguito. Bordon racconta l’epilogo di quei rapporti a distanza di anni, con un sorriso che se non lo assolve del tutto, conferisce umana saggezza a chi confessa la propria debolezza.

Diverso è il rimorso verso i familiari, la nonna, uno zio e le due figure più importanti dal punto di vista sia simbolico che affettivo, il padre e la madre. Visto dall’esterno il comportamento del nipote e del figlio è dunque comprensibile, ma non così per lui, che sa di aver goduto di un sentimento stabile e inalterabile, quell’amore che nulla concede all’egoismo, e che forse non ha saputo contraccambiare con pari dedizione. Lo scrittore analizza il proprio sentire ma, giunto all’epilogo, stavolta sa di non potersi più concedere dilazioni per emendare la propria colpa, perché la morte ha chiuso ogni possibilità di riscatto.

Il rapporto col padre, si sa, è uno dei temi su cui si sono misurati scrittori d’ogni tempo e cultura; per restare a Trieste, tra gli altri, Svevo, Stuparich, Saba, Tomizza. Come loro anche Bordon, che continua la grande tradizione letteraria triestina, è riuscito a spostare il paradigma della figura paterna da principio d’autorità a occasione d’incontro amicale: il figlio riconosce al genitore, cui ha dato il dolore di doversi separare dall’amato gatto, l’eleganza del basso profilo, la sua capacità di non prendersi sul serio, l’autoironia anche nei rapporti con la madre, donna libera, spregiudicata ed affettuosa, depositaria e dispensatrice di un’allegria da difendere.

La lezione fondamentale dei suoi genitori è stata dunque l’anticonformismo, libero, spensierato, incurante di ogni critica o convenienza sociale. Certo, lo scrittore sa che la sua memoria li sta mitizzando, ma ciò che gli è rimasto come inimitabile esempio è la loro capacità di attraversare la vita con leggerezza ed incoscienza. Ma poi, in pagine dense e tese, racconta anche il momento del loro abbandono alla morte, che non ha saputo tener lontana da loro.

Può perdonarsi? Certo che la sua coscienza è combattuta, e che pretendere da se stessi un giudizio definitivo sarebbe insensato. Lo potrà capire meglio il lettore. Allo scrittore resta il ricordo dell’amore bizzarro della madre che fin dal momento della sua nascita ha tenuto stretti loro tre «come in un nastro colorato».

È un’immagine che ovviamente non può aver visto con i suoi occhi chiusi di neonato: « Ma che importa, l’ho vissuta con loro, in un giorno senza colpe né rimorsi».

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