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Io genero la morte. Io sono Mary, madre di spettri

Io genero la morte. Io sono Mary,

madre di spettri

foto da Quotidiani locali

Io genero la morte.

Io sono una madre di spettri.

Quello di tua moglie Harriet viene a trovarmi ogni notte: ha lunghi capelli scuri, fradici d’acqua, il volto pallido, come di perla, e mi accusa di averti strappato al tuo primo amore. Ha ragione.

Mi tormenta quello della bambina, morta a causa del mio latte colmo di veleno. La rivedo pallida e fredda accanto a me e sogno di non arrivare troppo tardi, di prenderla fra le mie braccia e tenerla vicino al fuoco, fino a quando non apre di nuovo gli occhi.

E infine c’è Clara, nostra figlia. L’ho lasciata morire. E non c’è più tregua per il mio cuore spezzato. La sua assenza mi ha sprofondato nel pozzo nero della follia.

Avvicino il volto al vetro rigato dalla pioggia

Avvicino il volto al vetro rigato dalla pioggia, mentre questo temporale estivo lava via l’ultima, umida vampa di settembre. Settembre, questo mese di verde e arancio, al confine fra l’estate e l’autunno.

Decido di uscire. Mi richiudo la grande porta di ferro alle spalle e guardo le chiome degli alberi, sferzate dal vento. Vorrei poter annegare sotto questo cielo euganeo: qui, ora. Invece, dal giardino grondante d’acqua, vedo le torri nere del castello di Este. Somigliano a cupi araldi di dolore. Ho scoperto di saperlo dispensare con munificenza, il dolore.

Vorrei odiarti, Percy, ma non posso. Vorrei lasciarti ma ti amo. Avverto le colpe mie e tue, gli errori miei e tuoi, eppure tremo al pensiero di non saperti al mio fianco.

Ripenso alle ultime ore di Clara, la mia adorata Clara.

E so di aver lasciato che accadesse.

Questa consapevolezza mi divora un po’ alla volta, strazia la mia carne lentamente.

I miei giorni non sono altro che un lento dissanguamento. Vorrei solo poter dormire. E non avere l’obbligo di alzarmi.

Come è accaduto quel mattino, invece.

***

Non era ancora l’alba. Ho lasciato William con Elise e Paolo e sono salita in carrozza. Siamo partite per Padova.

Clara era così pallida e debole. Le guance le scottavano e temevo mi cadesse a pezzi fra le mani. Pareva fatta d’aria e aurora. Le ho detto di resistere, accarezzandole la fronte. Le ho sussurrato che, di lì a poco, il dottor Aglietti l’avrebbe vista e guarita. Tu ci aspettavi. E questo era quello che contava. Non avevamo bisogno di nient’altro. Tu mi bastavi. Mi sei sempre bastato.

Ricordo ancora la corsa, la carrozza che sbandava all’impazzata mentre scendevamo l’erta dei colli, diretti nella città che aveva incoronato poeta Petrarca. Il tempo pareva non passare, aspettavo e speravo che il cocchiere facesse volare i cavalli.

Clara mi appariva sempre più stanca, sembrava farsi trasparente sotto i miei occhi e io le parlavo, provavo a dirle di resistere, di non avere paura: non avrei permesso che le accadesse niente di male.

Era la mia bimba di alabastro.

Quella corsa pareva non finire mai sino a quando, finalmente, non ho udito le ruote fermarsi e, poco dopo, lo sportello si è aperto. Eri lì e mi è parso di rinascere. Ma poi ho capito che qualcosa non andava. Mi hai baciato e hai preso Clara fra le braccia. Era vestita di bianco, come un angelo, e a malapena riusciva a respirare.

La carrozza ci ha lasciato vicino al molo di Fusina e, senza aspettarmi, hai percorso il pontile, dov’era ormeggiata una barca. Ho visto i gendarmi nelle scintillanti uniformi. Hai mostrato loro la nostra bambina e ti ho sentito urlare. È stato allora che ho capito.

Non avevi preso i passaporti. Malgrado fossimo ridotti alla disperazione, ti eri dimenticato i documenti.

In quel momento, ti ho maledetto

In quel momento, ti ho maledetto.

Come avevi potuto? Contavamo così poco per te? Al di là delle parole, delle promesse, le tue azioni erano fatte di puro, impalpabile vuoto. Ma poi mi sono pentita di quei pensieri. Ti ho guardato e ho rivisto quel tuo temperamento di fuoco. Mi ha rincuorato almeno un po’. Tanto hai gridato, che i gendarmi ci hanno lasciati andare.

Forse, avrei dovuto capire allora che quelle tue amnesie rappresentavano ciò che eri: un uomo selvaggio e incostante. Ma la colpa era stata mia fin dal principio. Io conoscevo la tua indole. E ciononostante, era di quell’uomo che mi ero innamorata. E lo ero ancora. Perfino in quell’istante.

D’altra parte, alla prova dei fatti, mi ero resa conto di quanto non potessi accettare una vita come quella. Nei precordi del mio cuore, speravo che i figli fossero il frutto dell’amore che provavi per me.

Troppe volte, in quei giorni, mi hai dimostrato il contrario.

Sono salita sulla barca in preda al terrore

Sono salita sulla barca in preda al terrore, spezzata com’ero dalla paura di perdere Clara e dalla consapevolezza di non avere in te l’uomo capace di salvarla.

Ho guardato le acque scure del canale e poi quelle ferme della laguna. La gondola nera somigliava a un feretro silenzioso: avanzava veloce, tagliando la superficie liquida con la propria linea agile e affilata come la lama di un pugnale.

Tu cullavi Clara e io non riuscivo a guardarti. Non volevo farlo perché temevo di vedere nei tuoi occhi colmi di pianto quello che sapevo fin troppo bene: nostra figlia era già morta.

Quando infine siamo scesi al Lido, in quell’isola lunga e sottile dove quell’ipocrita di Byron ti aveva corrotto una volta di più, coinvolgendoti nei suoi giochi di pura depravazione, hai avuto il coraggio di lasciarmi ad aspettare in una locanda.

Clara tremava. Aveva le convulsioni e io non potevo fare nulla se non stare a guardare. Aspettavo che tornassi con il dottore. E mentre attendevo mi scoprivo per ciò che ero: un’assassina.

Ero lì, inerte e quell’inanità era un ferro arroventato nel petto.

È morta lì, fra le mie braccia, il corpicino scosso dalle convulsioni.

Non saprei dire per quanto tempo ti ho aspettato. Ma tu non sei mai arrivato, se non quando ormai era troppo tardi.

***

Rimango a guardare la pioggia cadere. Vedo i fulmini squarciare il cielo e in quei lampi improvvisi di luce abbagliante mi appare il mondo che ho costruito, le storie in cui mi sono rinchiusa, storie di mostri e prodigi, di creature nate morte, generate dal fermo desiderio di ridare la vita, quella vita che non mi appartiene perché scivola via dalle mani, e io la vedo spegnersi senza poter impedirlo.

E così, odo il rombo dei tuoni sopra la trachite dei Colli Euganei, mio sublime albergo di amarezza infinita. E mentre il fragore percuote le tempie e fa tremare il sangue nelle vene, ripeto in silenzio il mio nome: Mary Shelley, assassina e madre di spettri. —

L’autore: Matteo Strukul

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Matteo Strukul è padovano e ha 50 anni. Conosciuto e amato in tutto il mondo, i suoi libri di ispirazione storica sono stati tradotti in decine di lingue.

Nel 2017 con “I Medici” ha vinto il Premio Bancarella e, da allora, ogni sua nuova uscita è best seller e domina le classifiche.

Lo spirito dark e la puntigliosa documentazione sono le caratteristiche dei suoi lavori; la serie più recente ha come protagonista Canaletto. Al suo attivo anche pubblicazioni a fumetti, l’organizzazione di festival, l’attività di traduttore.

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