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“Ci hanno nascosto Danilo Dolci”: un libro ne testimonia l’impegno non violento in Sicilia

Danilo Dolci seppe farsi siciliano, lui che era nato lontano dall'Isola, immergendosi nelle pieghe più doloranti della Sicilia per farsi sentire accanto a chi, debole, non aveva voce.

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“Ci hanno nascosto Danilo Dolci.” Mai titolo più azzeccato per un libro, che si conta tra le poche iniziative per il centenario della nascita di uno dei più significativi intellettuali del Novecento, un uomo politico con la P maiuscola, ormai raramente assegnabile. Danilo Dolci seppe farsi siciliano, lui che era nato lontano dall’Isola, immergendosi nelle pieghe più doloranti della Sicilia per farsi sentire accanto a chi, debole, non aveva voce. Fu il loro interprete, capace di portare avanti una protesta non violenta ma scomoda, forse proprio perché non violenta.

La Storia vuole che il centenario della nascita di Danilo Dolci cada nel mezzo di una delle stagioni più tristi della vita politica e sociale della Sicilia, con in primo piano la grande sete, frutto di decenni di gestione mafiosa e clientelare. Quella stessa sete ben conosciuta dai contadini di Danilo, schiacciati dai voleri della mafia e di chi la sosteneva nei palazzi del potere. Sete che ritorna, o forse mai ha lasciato i giorni e le notti dei siciliani, nelle campagne e in città come Agrigento o Caltanissetta.

Il libro, bello e puntuale, di Giuseppe Maurizio Piscopo va oltre il doveroso omaggio che sta mancando (anche le forze democratiche non hanno saputo cogliere l’occasione). Supera il semplice ringraziamento, poiché l’autore, nella sua vita di insegnante, artista e scrittore, è stato un costante interprete delle linee guida indicate da Danilo Dolci per un affrancamento economico e sociale basato sulla cultura popolare e sui giovani.

“Ci hanno nascosto Danilo Dolci” dice la verità: hanno voluto occultare oggi quella voce che non seppero soffocare ieri. Il volume contiene preziose testimonianze di quanti ebbero la fortuna di conoscerlo, di chi lavorò al suo fianco, e di chi, successivamente alla morte di Danilo Dolci, si è impegnato con altrettanto coraggio e passione. Maestro della non violenza e grande educatore, Dolci dedicò la sua vita ai contadini e ai più deboli, con uno sguardo sempre rivolto al futuro, ai bambini. Erano gli anni Cinquanta e Sessanta, anni che nel volume sono anche raccontati attraverso immagini, con foto di grandi maestri come Giuseppe Leone e Melo Minnella, e foto d’archivio del centro che porta il nome del sociologo triestino.

Il libro, pubblicato da Navarra Editore nella sezione Officine, riporta nella quarta di copertina parole di Danilo Dolci che sintetizzano la sua idea: “Se l’occhio non si esercita, non vede. Se la pelle non tocca, non sa. Se l’uomo non immagina, si spegne.”

“Giuseppe Maurizio Piscopo,” scrive nell’introduzione Salvatore Ferlita, autore del recente “Pirandello di sbieco,” “da insegnante ha sempre praticato una maieutica basilare ma efficace, un po’ come quella praticata e sperimentata da Danilo Dolci.” Un “visionario mai pago, che continua incredibilmente a latitare nei libri di testo, spesso inservibili, votati a una omologazione offensiva, marchiati a fuoco dal politicamente corretto.”

Nel lasciarvi alla lettura del libro scomodo di un maestro scomodo, su un “poeta” scomodo, concludo con un ricordo personale. Un giorno, andai a trovare Danilo Dolci. Volevo raccontarlo per “Suddovest.” Erano i primissimi anni Novanta del secolo scorso. Arrivai che era quasi sera, e il nostro incontro cominciò e proseguì al buio: avevano tagliato la luce al suo centro, per morosità. Facemmo di necessità virtù, e il buio forzato rese indimenticabile il suo racconto. Al buio disobbedì la luna, e Danilo si soffermò a lungo sul senso del gelsomino, dei suoi petali bianchi e profumati, a stella.

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