Riforma dello spettacolo dal vivo: un sistema malsano che andrebbe ripensato
Con la consueta mossa dell’arrocco, per dirla in linguaggio scacchistico, spesso prendono il via le partite più complesse. E, dopo lo slancio referendario contro la riforma dell’autonomia differenziata, la sinistra si compatta al ‘campo largo’ anche nelle due battaglie politico-culturali che si sono aperte pressoché in contemporanea: il rinnovo dei vertici del servizio pubblico radiotelevisivo e la proposta di riforma dello Spettacolo dal vivo, che comprenderebbe un nuovo assetto di controllo più centralizzato delle Fondazioni liriche più importanti.
Bene: ora c’è solo da sperare che qualche giocatore esperto decida le prossime mosse secondo una vera e propria strategia di gioco, che tenga conto anche del merito delle questioni e dell’interesse generale. Fino ad oggi troppe volte gli strilli della protesta preludono a un agile accomodamento, dalle barricate alla lottizzazione, secondo uno schema classico di ipocrisia politica di cui sembra prigioniera la sinistra.
E’ appena accaduto per il Teatro di Roma e a Milano per la Scala, per non dire del caso ‘esemplare’ del Maggio fiorentino, citato a esempio da Gennaro Sangiuliano, di ente con perdite da capogiro coperte dallo Stato che giustificherebbero appunto un maggior peso del ministero nella gestione: nonostante il disastro, ha funzionato ancora come porta girevole per lottizzati di lusso, dove è stato accomodato come sovrintendente l’ex direttore generale della Rai Carlo Fuortes, in un peregrinare grottesco tra sinistra e destra, tra Roma e Napoli, tra decreti e conciliaboli di potere.
Andrebbe, dunque, radicalmente ripensato un intero sistema malsano che si fonda sui finanziamenti pubblici allo spettacolo, partendo da due considerazioni di fondo.
In primo luogo, è mutato il rapporto tra i cittadini e queste istituzioni, come del resto in generale è crollata la fiducia democratica nella politica. Quasi nessun cittadino comune riconosce e considera più questi carrozzoni, a partire dalla Rai, un patrimonio in qualche modo di tutti. Il che vale più o meno nello stesso modo, a livello locale, per una qualunque fondazione teatrale di prim’ordine: lo snaturamento dell’identità pubblica e di servizio è ormai evidente e in definitiva, anche allentandosi l’attenzione dei cittadini, si favoriscono le lobby. Bisogna poi prendere atto che, nello specifico del cosiddetto spettacolo dal vivo, non sono certo le istituzioni ad animare le scene. In Italia è ancora presente una riserva di creatività notevole, che nasce da un movimento spontaneo che si frammenta in decine e decine di piccole esperienze collettive, di talenti che liberamente e faticosamente ‘producono’ come possono nuove proposte. Si chiamano comunemente ‘compagnie’.
Nei casi più virtuosi, le istituzioni cercano di favorire l’affermazione di nuove compagnie, piuttosto che di cavalcare il successo di quelle che lo hanno raggiunto, assoggettandole in qualche modo; al meglio, curano pure la formazione dei talenti. E’ capitato, per esempio, ancora all’ultima Biennale Danza, diretta non a caso da un coreografo di fama mondiale come Wayne McGregor, talmente di prestigio da potersi considerare estraneo alle solite logiche delle lobby e dei favoritismi. Lo stesso McGregor ha curato per alcune stagioni – e infine diretto in uno spettacolo magnifico, ‘We Humans are Movement’ -, un gruppo di giovanissimi ballerini del College della Biennale, rigidamente selezionati per concorso e audizioni.
Come direttore della rassegna ha pure voluto presentare, anno dopo anno, accanto ai mostri sacri della danza contemporanea internazionale, un pugno di nuovi coreografi italiani, portando alla ribalta varie compagnie esordienti o quasi, con gli elogi conseguenti che si possono leggere anche solo nei report dei giornali come ‘The Guardian’.
Purtroppo poi, data la situazione generale, molti talenti italiani – nel caso della danza contemporanea, per fortuna, sono ancora davvero tanti – prendono inevitabilmente la strada diretta che li porta al successo nei Paesi dove appunto lo spettacolo dal vivo non è inquinato da logiche pubbliche di lottizzazione e favoritismi. Del resto, dei quattro spiccioli che il ministero riserva a tutte le compagnie di danza, pare che una buona fetta vada dritta a quella del ballerino più noto – e più sponsorizzato – d’Italia, che di certo non ne avrebbe bisogno. Ma è niente rispetto alla vergogna di certi maxi-finanziamenti al cinema!
Discorso analogo si può fare sul teatro cosiddetto di prosa, che vive in una situazione forse ancor peggiore. Tant’è che in Francia, di recente, è stata fatta una piccola riforma ‘all’italiana’ delle regole d’accesso e di determinazione dei finanziamenti pubblici e subito tutti gli osservatori indipendenti sono insorti, sostenendo che avrà effetti deleteri. Gli stessi sindaci, pur quasi onni(m)potenti e coriacei come Beppe Sala e Roberto Gualtieri, che ora insorgono perché il ministero della cultura vorrebbe pesare pro-quota nei vari costosissimi teatri pubblici, fino a ieri si sono messi d’accordo alla bell’e meglio sulle nomine. Costi quel costi, nel senso di raddoppiare, e a volte addirittura triplicare, poltrone e stipendi dei cosiddetti manager. Lo si è visto subito, in modo clamoroso e abbastanza ridicolo, per il Teatro di Roma, e poi a Milano per La Scala e così via.
Con questi stessi soldi quanti spettacoli di grande livello si sarebbero potuti fare, quante belle compagnie si potrebbero finanziare, quanti festival indipendenti? E – accidenti! – possibile che l’unica selezione per meriti sia stata quella degli aspiranti ballerini del College a Venezia? Non sarebbe il caso di fare almeno qualche concorso?
Niente, è più facile chiudersi nei fortini della televisione pubblica e degli enti lirici e teatrali per difendere le posizioni conquistate, è più comodo coltivare i rapporti con i cosiddetti manager dalla casacca facile che frequentare le belle compagnie dove si respira aria di libertà creativa: e questo vale a sinistra e nel campo largo, come ormai anche a destra. Eppure una riforma del sistema è improrogabile e una battaglia seria per la cultura potrebbe essere più importante di qualunque referendum istituzionale.
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