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Carbon credit, dare un prezzo alle emissioni ha fatto più male che bene

L’idea che la sfida climatica avrebbe potuto spalancare le porte alla finanza creativa nacque a Rio de Janeiro durante il Summit della Terra del 1992. “Veniamo a Rio con un vasto programma di cooperazione tecnologica. Siamo pronti—governo e settore privato—per contribuire a diffondere la tecnologia verde e lanciare una nuova generazione di crescita pulita” (George W. Bush, Presidente Usa). Si tradusse in realtà solo più tardi, con il Protocollo di Kyoto del 1997. E, come effetto collaterale, aumentò in modo vigoroso la presenza e l’influenza degli economisti nell’IPCC, il Gruppo Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite.

Il Protocollo aprì grandi speranze, tanto da giustificare una seconda edizione del mio libro del 1994 per aggiornare il tema più caldo: che fare? Sebbene il Protocollo imponga ai paesi firmatari di raggiungere i propri obiettivi principalmente attraverso misure nazionali, esso prevede anche una serie di meccanismi per compensare le proprie emissioni acquistando le riduzioni altrui effettuate altrove. Tutto ciò avviene acquistando o vendendo “unità”, ciascuna equivalente a una tonnellata di CO2 equivalente.

Attraverso questo scambio, si è sviluppata una nuova classe di prodotti finanziari il cui sottostante sono le sfaccettate forme di riduzione o assorbimento delle emissioni. Poiché la CO2 è il principale gas a effetto serra, questo mercato viene comunemente indicato come “mercato del carbonio” o carbon trading. E le unità scambiate vengono chiamate “crediti di carbonio”.

La CO2 è un rifiuto senza alcun valore e, in teoria, dare un prezzo al carbonio poteva essere una buona idea. Dovremmo davvero rendere più costose le cose brutte della vita. Ha funzionato? Quasi subito, c’erano parecchi dubbi (vedi, per esempio, Piani, G. (2008) Il Protocollo di Kyoto. Adempimenti e sviluppi futuri, Bologna: Zanichelli).

Invero, dipende dallo standard. In termini ambientali, fissare il prezzo del carbonio ha prodotto marginali benefici climatici, sotto forma di graduali riduzioni delle emissioni. Del tutto trascurabili, però, se le emissioni del 1997— circa 24 miliardi di tonnellate—non sono scese né sono state contenute, ma sono salite nel 2023 a circa 38 miliardi di tonnellate, un robusto aumento, prossimo al 60 percento. E, alla faccia di chi incolpava il boom demografico, il marchingegno finanziario non ha intaccato neppure i valori pro-capite: se nel 1997 ogni terrestre immetteva 3,9 tonnellate di CP2 equivalente nell’aria, nel 2023 ciascuno di noi ne ha emesse ben 4,7, con una crescita del 20 percento.

Più grave, invece, è stata la mistificazione finanzclimatica. Nel 2013, l’Interpol pubblicò la “Guide to Carbon Trading Crime”, linee guida su come far fronte ai crimini legati al mercato dei crediti di carbonio. Era evidente già allora come il carbon trading avesse promosso lucrose attività illegali.

Da allora le cose sono cambiate? La vendita illegale di crediti di carbonio inesistenti o inappropriati, le pratiche fraudolente nella misurazione dei crediti, le frodi fiscali sono aumentate esponenzialmente. Non solo, il carbon trading è molto sensibile al riciclaggio del denaro sporco. Come risultato, dall’Africa all’America Latina, le multinazionali hanno investito in compensazioni di carbonio che sono “probabilmente spazzatura”, secondo un recente articolo molto documentato pubblicato da The Guardian.

Politicamente, la finanziarizzazione della sfida climatica ha fatto più male che bene. La tariffazione del carbonio ha contribuito alla estrema polarizzazione della questione climatica. Ha alimentato le divisioni di classe, rafforzando il mito che la politica climatica necessariamente penalizzi i poveri e i lavoratori, e scatenando perfino rivolte dal sapore vandeano, come i Forconi in Italia e i Gilet Gialli in Francia. Per di più, il mito finanzclimatico ha rallentato la decarbonizzazione, convincendo sia la classe politica sia la gente che stiamo facendo dei veri progressi in tema di lotta ai cambiamenti climatici. E ha eluso completamente il nocciolo del problema.

“Bisogna dire che la società consumistica è la principale responsabile di questa terribile distruzione ambientale”, disse Fidel Castro ai delegati del Summit della Terra. I danni ambientali “sono il prodotto di politiche imperiali che, a loro volta, hanno portato all’arretratezza e alla povertà e che sono diventate la piaga per la grande maggioranza dell’umanità. […] Il commercio ineguale, il protezionismo e il debito estero aggrediscono l’equilibrio ecologico e promuovono la distruzione dell’ambiente”. Poiché Castro era comunista, nessuno prese in minima considerazione le sue parole.

Il carbon trading comporta enormi costi politici e sociali e modesti benefici ambientali. Come altre pratiche di green washing — per esempio, quelle oggi davanti agli occhi dei milanesi — il carbon trading ha avvelenato i pozzi della sfida climatica, con trascurabili effetti sull’obiettivo, la mitigazione. Forse bisognerebbe abbandonare definitivamente il carbon trading e perseguire politiche di transizione climatica che garantiscano benefici materiali anche immediati alla gente. E farlo partendo dal basso e dal locale, giacché le politiche calate dall’alto sembrano inefficaci e inefficienti, talora fraudolente.

A Rio de Janeiro, Castro si spinse oltre: “Basta con l’egoismo. Basta con i disegni di dominio. Basta con l’insensibilità, l’irresponsabilità e l’inganno. Domani sarà troppo tardi per fare quello che avremmo dovuto fare molto tempo fa”. Pura utopia. Sembra di sentir parlare Papa Francesco.

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