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Il viaggio verso Livorno di due triestini per riportare in Italia le spoglie di Salvatore Todaro

TRIESTE Nella nave che riportò in Italia la salma di Salvatore Todaro erano presenti a bordo due triestini, allora poco più che ventenni, oggi desiderosi di riavvolgere il nastro dei ricordi e riportare alla luce una vicenda per certi versi ancora avvolta nell’ombra. L’occasione è propizia: l’uscita nelle sale, lo scorso anno, del film “Comandante” ha fatto scoprire a molti spettatori l’epopea del militare italiano, alla guida del sommergibile Cappellini durante la Seconda guerra mondiale e protagonista di una memorabile peripezia che gli valse una medaglia d’oro. Todaro morirà sotto i colpi di una mitraglia inglese nel dicembre del 1942 e il suo corpo, inizialmente, rimane a Biserta, in Tunisia; vent’anni dopo, nel 1961, i triestini Giovanni Fabbro e Aldo Depau vengono chiamati a riportare in patria le sue spoglie. Un capitolo di storia affascinante e sul quale le notizie sono a tutt’oggi lacunose: cosicché il racconto dei due triestini assume un valore ancora più prezioso.

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Gli inizi

Eppure, per il momento, è necessario mettere da parte la storia, quantomeno quella con la “s” maiuscola. Perché i ricordi di Giovanni Fabbro, disponibile a condividere il suo passato, sono tarati inevitabilmente su una prospettiva personale, frutto della sua esperienza e sensibilità: dai quali, oltre ai fatti storici, emerge anche la fisionomia del suo carattere e il legame di amicizia che l’ha unito ad Aldo Depau fin da quando erano giovanissimi.

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Fabbro e Depau si conoscono infatti da ben prima di ritrovarsi a bordo della Vedetta, la nave che da Biserta porta a Livorno la salma di Todaro. Durante la Seconda guerra mondiale, entrambi di neanche cinque anni, vivono nello stesso palazzo in piazza Foraggi: ad accomunarli, tragicamente, è la fuga dal bombardamento aereo angloamericano il 10 giugno del 1944. Fabbro, ora quasi ottantacinquenne, non si lascia però scuotere dall’emozione rievocando quel giorno. Anzi, la sua voce è ferma e il suo discorso accompagnato da un piglio ironico e gagliardo.

La partenza

Fabbro e Depau frequentano l’istituto Nautico e, entrando nella Marina Militare, si ritrovano a La Spezia a bordo della Vedetta, una corvetta costruita in Francia con motori svedesi. Il pendolamento al quale vengono affidati segue una rotta fissa che, da Messina, va in direzione delle coste della Tunisia con rientro previsto a Trapani. Un percorso cui Fabbro e Depau si erano ormai abituati quando, all’improvviso, viene detto loro: «Oggi si va a Biserta». Racconta Fabbro, davanti alle fotografie d’epoca che conserva all’interno di un piccolo album: «Nessuno ci aveva avvisato. Ci dissero solo che andavamo a Biserta». È l’inverno del 1961.

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Lentamente, nell’equipaggio, si sparge la voce e viene fuori il nome di Todaro. Anche stavolta, però, sarebbe fuorviante attribuire all’episodio un pathos eccessivo, che mal si attaglia alla personalità di Fabbro. «Se ero emozionato di recuperare la salma di Todaro? Non saprei. Ero felice perché andare all’estero significava una paga doppia», scherza Fabbro.

Il viaggio

Il tutto dura pochi giorni. Dopo lo scalo a Biserta, inizia il viaggio verso Livorno, nel cui Cimitero della Purificazione Todaro troverà sepoltura. A vegliare sul cofanetto di medaglie del “Comandante”, racconta sghignazzando Fabbro, «c’era una guardia armata, un personaggio particolare, armato di baionetta. Un romano, direi il tipico burino». L’importanza del momento – che Fabbro stesso non esita a riconoscere – convive nelle sue parole con questi brandelli di ricordi personali, che hanno il considerevole pregio di restituire alla vicenda tutta la sua umanità.

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L’arrivo

Ma anche il temperamento sarcastico di Fabbro è costretto a sciogliersi all’arrivo a Livorno: c’è una fotografia, custodita gelosamente nel suo album, che lo ritrae sulla Vedetta accanto al suo compagno di vita Aldo, mentre la bara di Todaro viene portata a terra in attesa dei funerali di Stato. Il suo sguardo è serio e commosso.

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