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I tifosi del Torino contro Cairo: i motivi della contestazione

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la cessione di Raoul Bellanova, promettente difensore esterno, all’Atalanta. Il Torino ha incassato 25 milioni di euro e la cosa non è andata giù prima all’allenatore e poi ai tifosi. I quali, a dire la verità, già da qualche anno tengono il presidente Urbano Cairo nel mirino chiedendogli di adeguare la gestione del Toro alla sua storia oppure vendere e salutare. Cosa che puntualmente non accade. Non la prima, ma su questo Cairo qualche elemento a difesa può averlo dovendosi misurare con un calcio ormai non più a misura di imprenditore per quanto capiente, e nemmeno la seconda perché tutti i rumors su possibili acquirenti vengono puntualmente soffocati. Cairo non vende. Fine. Stare nei salotti del calcio che conta ha vantaggio più che svantaggi, soprattutto per chi è editore (tra le altre cose) della Gazzetta dello Sport e da un decennio ha chiuso quasi del tutto i cordoni della borsa per finanziare il suo club.

(Ansa)

Prima della sfida contro l’Atalanta – partita non banale perché a Bergamo c’è una società con un bacino d’utenza assimilabile a quello granata che riesce a coniugare sostenibilità e risultati sportivi – si sono trovati in diecimila a urlare “Cairo vattene”. Una protesta clamorosa, civile e rumorosa, di cui sui media di riferimento s’è trovata a stento qualche traccia. Normalità per un tifo che vive sempre peggio questa specie di sordina cui viene sottoposta ogni iniziativa che vada contro la gestione della proprietà. Era successo anche poche ore prima con lo sfogo di Paolo Vanoli, allenatore arrivato da poche settimane e così arrabbiato dal dire pubblicamente di essere stato tenuto all’oscuro della cessione del giovane Bellanova (“Fatta a mia insaputa, alla società dico che non ci piace la mediocrità”) allineandosi al sentimento popolare.

Il popolo granata non vuole più Cairo e si ritiene ostaggio della situazione. Chiede da anni a gran voce di poter ogni tanto togliersi qualche soddisfazione come capita ad Atalanta, Bologna, Fiorentina (club di dimensioni paragonabili a quella del Torino) e puntualmente vede ogni estate partire il pezzo pregiato. Bremer due stagioni fa verso l’odiata Juventus, Buongiorno e Bellanova oggi. A parte due sporadiche apparizioni in Europa League, nel ventennio di Cairo si sono contati quasi solo piazzamenti a cavallo tra parte destra e sinistra della classifica. Si accontenterebbe anche di poter ricordare il passato glorioso in un museo al Filadelfia e di veder nascere un centro sportivo per rinverdire i fasti del settore giovanile che per decenni è stato guida in Italia. Nulla. Promesse e basta,

Detto che Cairo, come tutti gli imprenditori, ha perfettamente ragione nel non voler buttare soldi nella sua impresa, rimane allora da dare un contorno di numeri alla frustrazione invisibile del popolo torinista. Che è riassumibile così: c’è stato un Cairo presidente del Torino che nei primi sette anni ha messo nel club 62 milioni di euro e uno che dal 2012 al 2022 ha chiuso i rubinetti. Salvo riaprirli nei ventiquattro mesi successivi per due finanziamenti da 16,5 perché l’onda lunga del Covid ha colpito tutti nel mondo del pallone. Anche il Torino. In tutto vent’anni di Cairo hanno portato nelle casse del Toro poco più di 120 milioni di euro comprese sponsorizzazioni e ricavi da parti correlate.

Tanto? Poco? In ogni caso non abbastanza per una tifoseria che preferisce chiunque altro a uno degli uomini più in vista del mondo delle comunicazioni in Italia. Lui incassa e rintuzza, ogni tanto risponde sui social ai messaggi di critica, ricorda da dove ha preso la squadra e la solidità che le ha garantito. Loro, i tifosi, ribadiscono di preferire un po’ di rischio alla normalizzazione progressiva dell’ultimo decennio. E ogni stagione in mezzo alla palude è uno strappo alla storia.

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