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La reunion degli Oasis gioca con i nostri sentimenti

Per citare gli Afterhours, più che dagli anni Ottanta pare non si esca vivi dai Novanta. Nel giorno in cui ricorre l’uscita di “Ten”, capolavoro dei Pearl Jam, ecco che gli Oasis ufficializzano la tanto attesa e prevedibile reunion, scaldando i cuori mai sopiti dei fan dei fratelli Gallagher. Non più attivi dal 2009, quando nel pieno del tour allora in programma, a tre concerti dalla fine, annunciarono al mondo il proprio scioglimento, i due torneranno infatti a condividere lo stesso palco (accompagnati da ‘chi’, non ci è dato ancora saperlo) per una prima serie di show in programma tra luglio e agosto 2025 nel Regno Unito e in Irlanda. Ma attenzione, perché come fanno sapere sempre loro “ci sono piani per portare il medesimo tour fuori dall’Europa”: magari negli Stati Uniti, se non anche in Giappone. Chissà.

Chi vi scrive, premetto, non nutre alcun interesse nei confronti della notizia di cui sopra. Ho goduto, e tanto, quando a far pace furono Axl Rose, Slash e Duff McKagan (contento, come rimango, di aver visto i Guns N’ Roses dal vivo in formazione quasi-originale la scorsa estate a Roma, al Circo Massimo) salvo poi comprendere, a stretto giro, che ricongiungimenti come quello, e come questo, di artistico non hanno assolutamente nulla. Servono anzi a ricordarci, e tanto, di come il tempo sia passato tutt’altro che indenne sui corpi e le ugole delle persone.

Ovvio che né Noel né Liam Gallagher siano in bolletta, come altrettanto palese è che avrebbero potuto (come possono) proseguire nel vivere di rendita ma non c’è dissapore che non possa sanarsi di fronte alla giusta cifra: evidentemente non giunta fino a poche settimane fa. Le proposte, quelle indecenti, a rifiutarle nella storia della musica sono stati in pochi. Mi vengono in mente gli Smiths, e più recentemente i Rush orfani del grande Neil Peart. Due esempi di band che tuttora andrei (loro sì) a vedere con tutti i sentimenti.

La reunion degli Oasis (una band che, per quanto mi riguarda, non va molto più in là dei primi due “Definitely Maybe” e “(What’s The Story) Morning Glory?”) è un evento intrinseco più che oggettivo: non è infatti un caso che i due, nonostante l’hype, abbiano scelto di rimanere confinati alle proprie terre di appartenenza, e che non ultimo in Italia – dove pure contano una fan base di tutto rispetto – non siano mai andati oltre i palazzetti.

C’è quindi un certo distacco tra la realtà delle cose, e quella che è invece l’unica forma di guadagno dei grandi sopravvissuti del già citato decennio: la nostalgia. Non gli album, non le canzoni, non i singoli concerti. Gli Oasis, e chi ne cura gli affari, giocano (bene) coi sentimenti più agrodolci di tutti noi, consapevoli che pure da parte nostra non ci sarà biglietto che tenga, o viaggio che non possa essere organizzato per riappropriarsi, ognuno, di un pezzetto del proprio passato. E’ l’economia che divora l’arte, la musica che sopperisce al capitalismo più becero. Il tifoso che per non criticare la propria squadra si fa (convinto) commercialista senza sentirsi altro dal se stesso che canta (come nulla fosse) in curva.

Difficile infatti resistere ai propri istinti ancestrali quando questi arrivano a ricordarci chi eravamo nel fiore dei nostri anni, e quanto era bella (forse) la musica di un tempo rispetto alla marmaglia di artisti che imperversano oggi.

Facile immaginare come la verità stia, invece, nel mezzo.

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