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Le confessioni di un atleta paralimpico: così cercavo di imitare i migliori e superare la mia disabilità

di Marco Pozzi

Quanto mi piaceva Tolstoj! Oltre ai romanzi, una volta lessi una sua riflessione in cui definiva il talento come “la capacità di prestare un’attenzione intensa e concentrata all’argomento […] il dono di vedere quello che gli altri non hanno visto”. Avrei ritrovato un pensiero simile in una bellissima intervista di Jacques Brel, che vi consiglio di ascoltare: “Il talento non esiste. Il talento è solo la voglia di fare qualcosa. […] Tutto il resto è sudore, traspirazione, disciplina”.

Vista la mia disabilità, fin da piccolo non ho mai potuto praticare gli sport come avrei voluto. Costantemente mi trovavo a sognare di competere ai livelli più alti, di vincere, mondiali, europei, olimpiadi, con moltitudini di tifosi intorno ad applaudire le mie imprese. Benché sapessi che non sarebbe mai stato possibile, non potevo fare a meno di cadere in questo sogno, in questa illusione.

Eppure fin da piccolo non ho mai smesso di fare sport. Ho attraversato vari fasi nei miei sentimenti, ricalcando una progressione forse tipica, già esposta dagli esperti nei manuali. Dapprima non consideravo la mia disabilità e, per quanto fosse irrazionale, speravo che gli altri non ci facessero caso, e in effetti gli altri forse lo facevano davvero, per assecondarmi. Spesso mi sono sentito tollerato; venivo incluso nel gioco con gli atleti normodotati senza adattamenti, dove avevo un certo sollievo – lo ammetto – nel tentativo assurdo e impossibile di imitare i migliori. A volte qualcuno “ricercava” la mia disabilità, io, il “meno fortunato”, come fossi una creatura destinata per sempre all’assistenza, condannata dalla semplificazione binaria fra “normodotati” e “disabili”, inchiodata a un certificato medico. Talvolta sentivo che si voleva valorizzare la mia disabilità, cambiando persino le regole del gioco, affinché io potessi avere le medesime possibilità di qualunque altro atleta.

Mi citavano un aforisma attribuito ad Einstein: “Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la vita a credersi stupido”. Questo punto di vista mi faceva piacere e al tempo stesso m’infastidiva. Io piuttosto amavo gettarmi nell’allenamento senza pensarci troppo, sino allo sfinimento, ponendomi obiettivi sempre più ambiziosi; e mi sentivo me stesso quando potevo misurarmi con altri atleti, e poco m’importava che fossero “normodotati” o “disabili”, o chissà secondo quale ulteriore classificazione.

Nello sport, come nella vita, abilità e disabilità sono un tutt’uno dentro la persona, che per esprimersi attinge alle possibilità che le offre il suo essere. La stessa disabilità, e l’urgenza a superarla, compensarla, accettarla – insomma: per affrontarla – è un movente che spinge ad esprimersi verso il mondo, proprio per esprimere quel processo, interiore quanto esteriore, in cui ognuno si misura col muro dei propri limiti e col desiderio d’infrangersi, per raggiungere un territorio più grande e auspicabilmente più felice: spingersi oltre, migliorare, evolversi.

Della disabilità non m’importa nulla, al diavolo la disabilità!

Oggi, mercoledì 28 agosto, iniziano le Paralimpiadi. Sui giornali troverete liste di curiosità, reportage dal villaggio olimpico, istruzioni per capire le nostre bizzarre discipline. Io ho preferito parlarvi dei miei sentimenti, che non sono solo miei, ma comuni a tanti altri atleti, e che non sempre sono facili da esprimere, anzi.

La cerimonia d’apertura a cui parteciperemo stasera, dicono, sarà grandiosa quasi quanto la prima un mesetto fa, col cavallo meccanico sulla Senna e il braciere enorme sospeso sopra i Jardin des Tuileries. A me la grandiosità interessa nulla. Piuttosto, ancora mi viene in mente il caro Tolstoj, che sembra avesse già intuito il senso che tiene insieme milioni di persone, raccolte in un solo luogo, a tifare nelle Olimpiadi o Paralimpiadi, chiamatele come volete. Nel “Che cos’è l’arte?” identifica una delle caratteristiche dell’arte: “Suscitare in sé stessi il sentimento provato una volta e, dopo averlo suscitato in sé, trasferirlo tramite i movimenti, le linee, i colori, i suoni, le immagini, le parole, in modo che altri provino la stesso sentimento – in ciò consiste l’attività artistica. L’arte è l’attività umana per cui un uomo trasmette consapevolmente ciò che egli ha provato ad altre persone, le quali si contagiano di questi sentimenti e li rivivono”.

Io voglio prender parte a questo contagio. Io voglio testimoniare con la vita la mia risposta alla domanda “che cos’è il talento?”. Io voglio contagiarvi con qualcosa di bello.
Buone Paralimpiadi a tutti!

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