Quando era Trieste a costruire i fari sulle coste venete, istriane e dalmate
Il Museo Commerciale di Trieste presentava, nella cornice di Palazzo Dreher, oggigiorno Borsa Nuova, un grande pannello raffigurante le coste del mar Adriatico dove, al cliccare di un tasto, si illuminavano di piccoli fari le coste dalla Dalmazia, all’Istria, al Veneto orientale.
Si trattava dei “fanali marittimi” costruiti nella prima metà dell’Ottocento dalla Deputazione di Borsa di Trieste. Tutt’oggi la stragrande maggioranza dei fari ottocenteschi che costellano il litorale dell’Istria e della Dalmazia hanno un’origine triestina, delineano i possedimenti dell’Adriatico.
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Molti fari non sopravvissero ai due conflitti mondiali e altri ancora rimangono nella forma di rovine battute dal vento; però tutt’oggi una componente importante dei fari storici dal Veneto alle Bocche di Cattaro portano la firma di costruttori (e fondi) triestini. La Deputazione di Borsa s’impegnò infatti nella realizzazione di queste strutture, perché aveva il cosiddetto “diritto di lanternaggio”. I fari erano pertanto fonte di reddito per la Camera di Commercio e Industria che deteneva, come stabilito nel regolamento camerale, “La Sorveglianza e dispositiva circa i fanali marittimi”.
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Il primo faro costruito dalla Deputazione di Borsa, dietro progetto dell’architetto Pietro Nobile, fu quello di Salvore, all’estremità nord della penisola istriana, nel 1816. La Deputazione emise 350 azioni e se ne comperò 75, coprendo così la spesa di costruzione di 35mila fiorini.
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Fu il primo faro del Mediterraneo, nel 1818, ad avere un’illuminazione a gas e il primo sul Litorale Austriaco. Seguirono presto il fanale sullo scoglio di Porer (1846), sull’Isola Lunga di fronte a Zara, detto di Punte Bianche (1849), a Lagosta, nella Dalmazia meridionale (1851), a Rovigno, nello specifico a San Giovanni in Pelago, del 1853 dietro progetto di Giuseppe Sforzi, a propria volta allievo di Nobile e infine presso le Bocche di Cattaro, a Punta Ostro (1854).
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La Camera di Commercio rivolse poi la sua attenzione a occidente, realizzando nel 1854 il Faro di Sacca o Punta di Piave e nel 1855 i fanali Spignon e Rocchetta, nel Malamocco in Veneto. Seguì, nel 1863, un altro faro nella provincia veneziana, stavolta a Chioggia.
La penisola istriana e in generale la costa orientale rimaneva però l’obiettivo della Deputazione di Borsa che iniziò la costruzione, dal 1865 e 1867, di due Fari a Lissa e sull’isola di Pelagosa.
Vennero entrambi però completati dal Governo Centrale Marittimo di Trieste, perché nel frattempo era scoppiata la terza guerra d’indipendenza (1866). I fari veneti erano passati sotto il giovane Regno d’Italia, persi dalla Camera di Commercio; e quelli adriatici divennero proprietà pubblica “per ragioni militari”. Il ruolo militare sotteso al Faro, evidente nella costruzione della torre Massimiliana del 1833, inglobava la funzione commerciale e infine, come sarebbe avvenuto nel novecento, la distruggeva.
I fari veneti osservarono infatti, durante la prima guerra mondiale, le schermaglie sul mare e, durante la seconda, vennero spesso distrutti onde non offrire punti di riferimento agli Alleati. Questo fu il fato del Faro di Sacca, ricostruito tra il 1949-51 dal Genio Civile di Venezia. E fu anche la sorte del piccolo Faro di Muggia, distrutto con l’esplosivo dai nazisti durante il periodo del Litorale Adriatico. Le vicende di questo piccolo fanale sono state di recente ricostruite dagli studiosi Sergio Norbedo e Franco Stener che hanno osservato come si trattasse di una casa-faro, edificata nel 1869 dal governo austriaco. Era un edificio modesto: due piani e una torretta con lanterna marittima, un “fratello minore” della Lanterna.
Sopravvive tutt’oggi il Faro di Punta Salvore: dal 1934 ebbe, dietro volontà della Marina militare italiana, un’antenna radio di 60 metri che la Jugoslavia scelse di smontare nel 1949 e rimontare a Portorose. Sarà grazie a quest’antenna italiana che Radio Capodistria iniziò, lo stesso anno, le sue prime trasmissioni.
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