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Addio Israele, non ti riconosco più: me ne vado

Un entusiasmo svanito nel tempo. Un addio doloroso ma necessario per non essere prigioniero in un paese che non sente più suo. La lettera di Dean Teplitsky 27 anni, studente e ricercatore del ministero della Giustizia, pubblicata da Haaretz va letta con attenzione e rispetto. Perché indica una sofferenza interiore che si risolve con la partenza e che manifesta qualcosa di ancora più profondo di un senso di estraneità: un sentimento di rigetto. Che è proprio di tante e tanti giovani d’Israele, come Dean, che non ce la fanno a vivere una quotidianità scandita da scelte politiche che violentano ciò in cui questi giovani credono, quei valori che vedono scalfiti, irrisi, osteggiati da fanatici ultranazionalisti, da una destra “messianica” che ha fatto della sopraffazione il suo credo ideologico, della guerra, interna ed esterna, la sua essenza. 

Addio Israele

Scrive Dean Teplitsky: “Sono passati quasi 10 anni da quando l’edizione ebraica di Haaretz pubblicò un articolo che scrissi quando ero uno studente del dodicesimo anno nel pieno della tempestosa campagna elettorale del 2015 (Haaretz Hebrew, 29 gennaio 2015). In quell’articolo sostenevo che il fulcro delle elezioni dovrebbe essere la domanda se il sacrificio che lo Stato si aspetta dalla mia generazione, che sarà arruolata nell’esercito tra pochi mesi, sia legittimo finché lo Stato evita di correre qualsiasi rischio per creare un futuro più sicuro in cui tale sacrificio potrebbe essere evitato.

“L’altare dello status quo del [Primo Ministro Benjamin] Netanyahu”, scrissi, per il quale i nostri soldati venivano sacrificati in ripetuti combattimenti senza alcuno sforzo diplomatico onesto e significativo per risolvere il conflitto, deve essere sostituito da una leadership coraggiosa con una prospettiva strategica per la sicurezza a lungo termine – una leadership che fornisca una visione di pace e sicurezza degna del sacrificio delle nostre vite.

Sebbene la sconfitta in quelle elezioni mi abbia fatto male, speravo che la lotta non fosse finita. Per questo mi addolora molto rendermi conto che quella speranza è ormai svanita. Altri 10 anni di vita sotto i governi Netanyahu   hanno portato allo scenario peggiore: Israele è stato vittima del più terribile attacco nella storia del conflitto, il suo regime democratico è in costante ritirata, la società israeliana è lacerata e divisa su questioni che erano date per scontate nelle nostre lezioni di educazione civica, come una magistratura indipendente, la statura del procuratore generale e la responsabilità ministeriale. L’economia sta rischiando il collasso e il governo sta chiudendo gli occhi di fronte a questa situazione.

A 10 anni da quando sono diventato cittadino votante, mi è chiaro che il futuro del mio Paese nei prossimi 10 anni (e molto probabilmente anche oltre) è negativo. Dal comportamento di Netanyahu e dei suoi ministri emerge chiaramente che le vittime dell’attuale guerra, proprio come quelle dell’operazione Protective Edge, non saranno sfruttate per creare un futuro migliore e più sicuro, basato sulla consapevolezza che la soluzione non è mai puramente militare; che l’esercito da solo non può mai fornire una difesa ermetica contro i nostri nemici. Invece, le vittime sono già state sfruttate per la propaganda tossica del perseguimento della sanguinosa politica dello status-quo degli insediamenti.

In breve, la domanda che i giovani israeliani devono porsi è la seguente: Perché dovremmo accettare di continuare a vivere in un paese in cui così tanti sono disposti ad abbandonare l’anima dei loro figli e delle loro figlie a una leadership che si ritiene libera da ogni responsabilità per il fiasco della sicurezza che va avanti dal 7 ottobre? E questo dopo che quasi ogni giorno, da quando è stato eletto, Netanyahu ha avvertito l’opinione pubblica che solo lui può evitare un altro disastro simile all’Olocausto. E se non si assume la responsabilità della sicurezza, perché è lì? Se l’autorità del primo ministro non comporta la responsabilità della nostra sicurezza fisica, perché abbiamo un primo ministro?

In queste circostanze, in cui la maggior parte dell’opinione pubblica mostra indifferenza, o almeno non è disposta a scendere in piazza per abbattere i sistemi gestiti dal governo, trasferirsi all’estero non è solo auspicabile: è una decisione esistenziale, matura e responsabile, che viene presa da un numero di israeliani sempre maggiore rispetto al passato. La conclusione inevitabile della realtà delle nostre vite è che la cittadinanza israeliana non è una garanzia sufficiente per vivere in sicurezza in un paese libero.

Mi trasferisco a Berlino e non ho un briciolo di vergogna”.

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