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Don’t worry Darling, come ho fatto a non vederlo prima!

Durante una delle rare serate dedicate al mio divano e alla tv, mi sono imbattuta in un film in onda su Netflix, Don’t worry Darling. Il film è del 2022 ed è incredibile che fino ad oggi non ho mai avuto occasione di vederlo. La regia è di Olivia Wilde, bellissima e talentuosa attrice di pellicole di successo come Rush, Her, Babylon. Solo dopo, sono venuta a conoscenza dei vari retroscena che riguardano il film, in particolare il controverso rapporto della regista con l’attrice protagonista Florence Pugh e il fatto che la Wilde si fosse innamorata del suo attore protagonista Harry Styles, lasciando il marito per lui. Al netto di tutti i gossip da ombrellone, il film è molto bello ed estremamente valido sia dal punto di vista registico, che di scrittura, per non parlare di scenografia e costumi.

Dopo i primi fotogrammi, si viene quasi rapiti e ci si ritrova immersi in un mondo parallelo, esattamente ciò che accade ai protagonisti. La storia è quella di una ristretta comunità chiamata Victory, sorta dal nulla in mezzo al deserto, intorno agli anni 50. Le case sono perfette, le staccionate bianchissime, i prati inglesi curati e lussureggianti. In ognuna di queste candide villette circondate da alte palme, vive una famiglia, composta da un marito “così elegantemente anni 50” e una moglie che sfoggia abiti impeccabili e acconciature alla Jackie Kennedy, sempre perfettamente in ordine. Solo una delle famiglie di Victory ha dei figli, due per la precisione, il numero perfetto: un bimbo e una bimba.

La vita scorre lenta a Victory e ogni giorno è uguale all’altro. La mattina i mariti escono con la loro auto e vanno al lavoro, le mogli li salutano dal vialetto, pronte ad accoglierli a casa a fine giornata con un bicchiere di whiskey in mano e la cena pronta. La casa è impeccabile, i vetri splendono, i tappeti vengono aspirati ogni giorno, le colorate vasche da bagno strofinate fino a brillare. Non c’è nulla fuori posto e anche quando sbrigano le faccende domestiche, le mogli sorridono e canticchiano, pettinate e vestite sempre con cura maniacale.

I due protagonisti, Jack (Harry Styles) e Alice Chambers (Florence Pugh) sono la coppia perfetta: innamorati, appassionati e devoti l’uno all’altra. La sera Jack torna a casa e Alice lo accoglie con amore e trasporto, come se non lo vedesse da dieci anni. Fa l’amore con lui ogni giorno, come se fosse la prima volta, gli sussurra parole romantiche e lo considera tutto il suo mondo. Non ci sono liti o anche semplici confronti tra loro, tutto scorre senza nessun problema. Lei è lì solo per esaudire ogni desiderio del marito, per sostenerlo senza fare troppe domande, perché ciò che conta è solo che lui sia sereno e che svolga il suo lavoro al meglio, qualsiasi esso sia.

Poi c’è Frank, colui che viene presentato come una sorta di sindaco di questa patinata comunità, il fondatore di questo villaggio in cui tutto è assolutamente “come deve essere”. Frank è a sua volta sposato con un’altrettanta devota moglie, che lo idolatra e lo venera come un dio.

L’immagine complessiva è quella di una patriarcale e piuttosto surreale versione anni 50 della vita. Tutta questa perfezione genera immediatamente nello spettatore una lenta inquietudine, che cresce minuto dopo minuto e improvvisamente tutto ciò che prima appariva perfettamente a posto, risulta scomposto, fuori fuoco, pericolosamente confuso. L’apice di questa inquietudine si raggiunge quando una delle mogli di Victory, comincia a mostrare segni di instabilità. Ha delle strane visioni, lo sguardo vitreo e triste, una costante paranoia che culmina con un tentativo di suicidio. Tutti paiono pressoché indifferenti alla cosa, tutti tranne Alice, che comincia a sospettare che il meraviglioso mondo nel quale vive col suo adorato marito, nasconda in realtà qualcosa di oscuro.

E’ un film ben riuscito, che ha qualche piccolo buco di sceneggiatura, ma che comunque riesce nel tentativo di coinvolgere lo spettatore in maniera totale. Nulla di nuovo, si dirà. E proprio la stessa regista Olivia Wilde ammette la sua ispirazione a film come The Truman Show, Matrix o Inception, io aggiungo anche La Donna Perfetta (film con protagonista Nicole Kidman). Al di là delle ispirazioni cinematografiche, è impossibile non trovare una connessione con i numerosi casi di di maschilismo tossico, balzati alle cronache negli ultimi anni.

+++Attenzione Spoiler!+++

Si scoprirà infatti, che Victory non è altro che una realtà virtuale, nella quale gli uomini – che hanno sottoscritto un contratto con Frank – vivono una vita ideale, con mogli perfette, che non lavorano e non fanno domande, sempre pronte a concedersi sessualmente e sempre sorridenti.

Queste donne, altro non sono che le loro reali compagne e mogli che, a loro insaputa, vengono sottoposte ad un trattamento che le lobotomizza e le fa cadere in una sorta di trance perenne, nella quale viene inserita appunto la nuova realtà virtuale. Una dimensione nella quale loro non sono più se stesse, ma solamente una proiezione di ciò che il loro uomo vorrebbe che fossero. Alice, ad esempio, era una chirurga di successo, ma suo marito Jack non sopportava che lavorasse così tanto, che tornasse tardi la sera e che, sfinita dai turni massacranti in ospedale, non avesse voglia di fare l’amore con lui. Lui, che passava tutto il giorno a casa, davanti al pc, nella speranza di dare una svolta alla sua vita.

Dinamiche piuttosto familiari, direi: lui non sopporta il successo di lei, si sente piccolo, pretende attenzioni come un bimbo capriccioso, è triste e sente che lei lo sta abbandonando. Perciò, come può farsi scappare l’occasione di ingabbiare per sempre la sua mente e renderla la donna perfetta che ha sempre voluto? E come può non accettare, a sua volta, di diventare improvvisamente un uomo di successo, che vive in una casa bellissima, ha tanti amici, tanti bei vestiti, finalmente un vincente. Poco importa se nulla è reale, perché il reale è insopportabile, grigio e triste.

Dopo aver visto il film, pensando a tutti i casi di femminicidio degli ultimi anni, mi sono posta una domanda: quanti uomini sarebbero disposti a barattare tutto, in cambio di una vita così? Uomini che sarebbero in grado di uccidere, piuttosto che vivere da perdenti, da eterni insoddisfatti.

Penso al ragazzo che ha ucciso l’ex perché non sopportava che lei si laureasse prima di lui, che lei potesse fare carriera, che fosse migliore di lui. Penso all’uomo che uccise brutalmente moglie e figlia adolescente, sostenendo durante l’interrogatorio che lui per sua moglie era “diventato invisibile”, da dieci anni gli si negava sessualmente e non condivideva l’intenzione della donna di proseguire nella sua idea imprenditoriale. Penso a quello che ha ucciso perché la moglie era uscita con alcune colleghe e poi era andata a dormire. Lui aveva provato ad accarezzarla nella notte, nella speranza di consumare un rapporto sessuale, ma lei l’aveva respinto. Purtroppo, potrei continuare per ore.

Tutti questi uomini hanno ucciso le loro donne perché non riuscivano a controllarle, perché la loro indipendenza li avrebbe fatti sentire piccoli, fragili, delle nullità. E questo, in una società ancora troppo insanamente maschilista, non è tollerabile. Probabilmente, avrebbero sottoscritto senza problemi un contratto con Frank, decidendo di abbandonare per sempre la realtà, per vivere in una dimensione che non esiste, un luogo perfetto in cui le mogli sono esattamente come dovrebbero essere: devote e remissive. Mentre la virilità maschile trova la sua piena espressione, senza ostacoli e senza noiose lamentele femminili.

Non a caso, è stato scelto proprio il nome Victory: gli uomini sono dei vincenti e a livello sociale, si collocano sempre un gradino sopra le donne. Victory è un luogo pieno di sole, di serate con un drink in mano, di donne senza aspirazioni o sogni, eccetto quello di rendere felice il proprio uomo, un luogo senza tempo né stagioni. Una vita senza vita.

Purtroppo, in mancanza di una Victory in cui scappare, l’unico modo per sopportare la miseria della loro esistenza, alcuni uomini scelgono di eliminare per sempre e senza pietà la fonte delle proprie insicurezze, per non dover mai accettare il fatto di essere semplicemente dei deboli.

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