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Usa, solo una cosa mette d’accordo Harris e Trump: i dazi doganali. E non è una buona notizia

A distanza di due mesi dalle elezioni presidenziali negli Usa, si stanno accendendo i riflettori sulle politiche economiche dei due candidati. Per certi aspetti c’è poco di nuovo. Harris rilancia le politiche progressiste: estendere l’Obamacare sulla sanità pubblica, introdurre nuovi interventi fiscali per i redditi medio bassi, linea dura sulla difesa dell’ambiente. Trump persegue quelle anarco-conservatrici: conferma dei tagli fiscali per le imprese, riduzione delle tasse per i ricchi, una più ampia deregolamentazione che smantelli ogni politica ambientale e così via. Il solco tra le due sponde della politica americana non potrebbe essere più netto e ampio.

L’unico elemento di novità sul piano economico che li accomuna è la nuova attenzione per i dazi doganali, sia a sinistra che a destra. Entrambi gli schieramenti si sono detti favorevoli a un’ampia introduzione di tariffe doganali, cioè delle tasse sulle importazioni, anche se solo Trump ha quantificato la sua proposta. Se eletto tutte le merci importate verrebbero gravate di una tassa del 20% o più. In sé nulla di strano in quanto ancora oggi la tariffa doganale viene adoperata. Per esempio alcune merci cinesi che entrano nella Ue sono soggette a questa tariffa. Ma si tratta di episodi locali e ben circoscritti in quanto la regola generale è la loro assenza. Il fatto nuovo è la loro generalizzazione.

Che il dibattito politico riporti in auge questo strumento di politica economica non è una buona notizia, anzi è il segno di una crisi profonda nel commercio internazionale. Queste crisi ci sono state alla fine dell’Ottocento scatenando guerre doganali. Un grave collasso nel commercio internazionale dovuto all’introduzione di tariffe doganali si è avuto anche dopo la crisi del 1929. In genere le tariffe doganali non hanno risolto i problemi, casomai li hanno spostati o aggravati.

La giustificazione per la loro introduzione è sempre la stessa, ridurre il deficit commerciale e difendere la produzione nazionale. Non c’è dubbio che oggi il deficit commerciale americano sia gigantesco, superando con la Cina gli 80 miliardi mensili. Si tratta però di una parabola tipica delle economie più ricche che hanno abbandonato il manifatturiero che oggi pesa negli Usa appena il 10% del Pil, la percentuale più bassa tra i paesi ricchi. Alla deindustrializzazione degli Usa ha fatto da contraltare l’ascesa cinese.

La politica mercantilistica nei confronti della Cina è cominciata con Trump ed è continuata con Biden. Un nuovo mercantilismo di tipo tecnologico con ampie implicazioni militari. La battaglia principale è quella sulla produzione dei cip avanzati, quelli che governano l’intelligenza artificiale, ma anche la guerra tra Russia e Ucraina, dove l’America si è ritrovata improvvisamente scoperta. Biden ha firmato nel 2022 il Chips and Science Act che prevede finanziamenti a fondo perduto per 40 miliardi di dollari per riportare l’industria dei semiconduttori negli Usa, facendola risalire da 2 al 10% a livello mondiale. Con il risultato che molte imprese hanno sospeso gli investimenti anche in Europa per approdare al ricco mercato americano. Questioni geopolitiche di supremazia tecnologica e militare, insomma, e non solo industriali come quelle tradizionali di difesa dei posti di lavoro.

A tutto questo si è aggiunto però un elemento nuovo da parte della squadra degli economisti di Trump. Non potendo più ricorrere alla spompata curva di Laffer, l’idea che riducendo le tasse il reddito aumenti, dimostratasi falsa, stavolta si è inventa l’idea di ridurre le tasse grazie alle tariffe doganali. In altre parole, la riduzione delle tasse sul reddito, il mantra liberista di sempre, stavolta verrebbe finanziato dalla Cina e dagli altri paesi con gli introiti delle tariffe doganali. Nessuno si era spinto così lontano nel populismo economico e per una buona ragione. Si tratta di una totale sciocchezza sul piano economico, ma forse un buon argomento per l’illuso, e a questo punto credulone, elettore americano.

Fondamentalmente ci sono due ragioni per tagliare subito questo ramo della nuova Trumpeconomics. La prima è che l’esperienza dimostra che l’introduzione delle tariffe doganali non è detto che riduca il deficit commerciale. In primo luogo perché anche gli altri paesi risponderanno con eguali misure e quindi si ridurranno anche le esportazioni. Queste ultime saranno ancora più penalizzate dall’alto costo delle materie importate. C’è poi una questione nuova nell’epoca della globalizzazione: le auto di Tesla prodotte a Shangai o i cellulari di Apple prodotti a Zhengzhou sono manufatti cinesi, sottoposti a tariffa, o americani? Insomma le tariffe doganali generalizzate rischiano di essere un autogol per l’economia Usa.

La seconda ragione evidenziata dagli economisti, quelli seri almeno, chiama in causa l’inflazione. Un aumento generalizzato delle tariffe doganali alla Trump costerebbe circa 4.000 dollari ad ogni famiglia americana perché le impese scaricheranno sui consumatori il nuovo onere doganale. Quindi eventuali riduzioni di tasse, se ci saranno, verranno ampiamente assorbite dall’aumento del costo della vita. L’idea dei consiglieri di Trump di finanziare l’eventuale riduzione dell’imposta del reddito con le entrate da tariffe doganali a vantaggio delle famiglie è un qualcosa che non esiste, a voler dare un giudizio generoso.

Il partito conservatore al quale Trump appartiene ha fatto per decenni del libero commercio internazionale la sua bandiera ideologica. Ma allora la tecnologia americana dominava i mercati e anche l’economia mondiale. Era il liberismo sbandierato dei vincitori. La globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e i sostenitori del libero commercio sono diventati mercantilisti, cioè protezionisti. Ora sugli scaffali della libreria conservatrice non troviamo più i libri di Smith, Friedman o Hayek, sostenitori della libertà individuale e del libero commercio, ma quelli del giurista tedesco, poi passato al nazismo, Carl Schmitt per il quale il diritto discende dal potere e non viceversa. Potere sulla scena internazionale che gli Usa hanno perduto e che cercano di riconquistare con una nuova guerra commerciale per la supremazia tecnologica dagli esiti molto incerti, e non solo economici.

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