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Pechino, al via il Summit Cina-Africa. Xi offre al continente l’ambizione di un “futuro condiviso” che cela i rischi neoimperialisti

Si è aperta oggi la 9º edizione del Forum di cooperazione sino-africana (FOCAC), il vertice diplomatico che si tiene ogni tre anni tra Cina e Africa. Pechino ospiterà per tre giorni 53 dei 54 stati africani, in quello che si prospetta essere uno degli incontri diplomatici più importanti dell’anno. Presente al Summit anche il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Con l’intento di implementare una solida e duratura cooperazione basata su principi e meccanismi, presentati da Pechino come “egualitari”, tra gli obiettivi da raggiungere ci sono il miglioramento della comprensione reciproca tra i popoli e il rafforzamento dei rapporti commerciali ed economici. Il titolo dell’evento presentato lo scorso 23 agosto, che evidenzia come la Cina stia velatamente ribaltando l’egemonia occidentale sul continente, è stato messo a punto con grande precisione: “Unire le Forze per Promuovere la Modernizzazione e Costruire una Comunità Cina-Africa di Alto-Livello dal Futuro Condiviso”. Obiettivo di entrambe le parti, perfettamente in linea con il Piano d’Azione di Dakar 2022-2024 frutto del Summit tenutosi in Senegal nel 2021, è quello di far coesistere due storiche filosofie: quella armonica cinese e quella Ubuntu africana. Prosperare insieme scardinando la narrazione dello scontro tra civiltà, scambiare beni, valori, religioni e culture attraverso la nuova Via della Seta ed esplorare e perseguire percorsi indipendenti di modernizzazione sono tra i valori fondamentali condivisi tra gli attori politici che hanno preso parte al Summit di Pechino.

Non è una novità. Corteggiare l’Africa è lo sport preferito di molti paesi (la maggior parte dei quali in stadio di sviluppo avanzato) che nascondendo mire neo imperialiste dietro Summit che si tengono con regolarità sul tema della cooperazione. Di fatto però, se osserviamo i dati, di realmente cooperativo c’è ben poco perché la dinamica, alla fine, è sempre la stessa: un paese A che sfrutta un paese B, giovando di ciò che il paese B può offrire o vendere a basso costo. La cosa interessante in questo caso è che il paese A è la Cina, storicamente preda del neo imperialismo americano che per più di un secolo ha sfruttato la sua manodopera a basso costo. Ad oggi, nonostante paesi come l’India, il Giappone e l’Indonesia stiano cercando di accaparrarsi risorse naturali e commerciali africane, la Cina è da considerarsi come il più grande partner commerciale dell’Africa negli ultimi 15 anni, con un volume commerciale che nel 2023 ha raggiunto livelli record. L’impronta diplomatica cinese sul continente sta pian piano eclissando l’influenza dei tradizionali partner occidentali. L’obiettivo di Xi Jinping è quello di rafforzare le relazioni con il continente e rivitalizzare il suo programma di commercio e investimento “Belt and Road“, soprattutto se considerata la crisi pandemica che dal 2020 ha fortemente rallentato l’espansione dell’economia cinese. Secondo quanto riportato dal Washington Post, già prima del vertice il presidente cinese ha incontrato una dozzina di leader africani, annunciando partnership potenziate con paesi come la Nigeria, il Mali, il Comore, il Togo, il Gibuti, il Ciad e il Sud Africa.

Pechino descrive le relazioni che intrattiene con gli stati africani come forgiate sulla lotta all’imperialismo. La linea che distingue l’imperialismo dal neo imperialismo però, è molto sottile perché nel secondo caso, quello neo imperialista, il controllo esercitato da parte di uno stato A su uno stato B è indiretto e basato sulla dipendenza economica. Insomma, quella cinese così come quella di tutti coloro che investono in una cooperazione velatamente mascherata, è pura retorica che non spezza la catena dello sfruttamento. Secondo quanto riportato dal Washington Post, l’anno scorso, i prestiti della Cina all’Africa hanno raggiunto i 4,6 miliardi di dollari. E’ il dato più alto degli ultimi cinque anni e il più grande aumento annuale dal 2016, secondo i dati della Boston University pubblicati la scorsa settimana.

La Cina ha realizzato negli ultimi 20 anni diverse infrastrutture strategiche in Africa come, ad esempio, la linea ferroviaria Addis Abeba-Gibuti o le centrali elettriche in Nigeria, Ghana e Gabon. Questo tipo di investimenti, che hanno permesso a Pechino di costruirsi una reputazione positiva in tutto il continente, potrebbero nascondere ingerenze e intromissioni politiche. E’ pur sempre vero, tuttavia, che negli ultimi decenni la strategia economica cinese adottata in Africa sta subendo evidenti cambiamenti. Fino a qualche anno fa, gli investimenti principali fatti nel continente africano hanno interessato principalmente l’acquisto di materie prime, oggi invece sta aumentando l’attenzione verso gli investimenti sull’energia rinnovabile. La Repubblica Democratica del Congo, per esempio, fornisce alla Cina oltre il 60% del cobalto, componente chiave per la fabbricazione di batterie per veicoli elettrici e per l’elettronica, ed è diventata così un attore chiave nella transizione del paese verso l’energia verde. Gli investimenti in Africa però stanno diventando sempre più appetibili anche nel settore manifatturiero e in quello delle esportazioni. I produttori di auto elettriche e di pannelli solari cinesi sono sempre più alla ricerca di acquirenti nei paesi in via di sviluppo dopo che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno aumentato i dazi di importazione. Secondo i dati riportati dalla Boston University, la Cina ha firmato lo scorso anno tre accordi in Africa per un valore di 500 milioni di dollari, per un parco solare, una centrale idroelettrica e per la trasmissione di energia. Da evidenziare infatti che l’Africa produce scarse quantità di elettricità, nonostante nel continente viva quasi un quinto della popolazione mondiale. E la Cina è abituata ad avere a che fare con questi numeri.

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