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Le storie di uomini smarriti e ritrovati nei boschi mistici delle Alpi d’Oriente

«Facciamo parte di una comunità della vita costituita di relazioni con altri, il dualismo umano/ naturale così caro a molte filosofie è, dal punto di vista biologico, del tutto illusorio».

Le parole qui riportate appartengono al biologo David Haskell, che nel suo “Il canto degli alberi” (Einaudi) ci ricorda come la storia, l’ecologia e il benessere dell’umanità siano strettamente intrecciati con la vita delle piante.

Un concetto ben presente sotto la pelle di chi vive a contatto con la natura, ha la capacità di ascoltare lo spirito dei luoghi e non dimentica le presenze umane che li hanno popolati. Gente che sa che la vita è un insieme di reti incarnate, e poiché la vita è una rete la natura non è separata dagli esseri umani, per cui tutti noi, alberi, esseri umani, uccelli, insetti, batteri, siamo entità plurali.

Gente come Maurizio Bait, cui basta lasciare la sua casa a Valbruna ed entrare nella foresta di Tarvisio, magari di notte, guidato dal cerchio di luce di una lampada a petrolio come un montanaro di cento anni fa, per sentirsi in pochi secondi in un altro mondo. “Il bosco conserva dall’inizio del tempo un vibrante potere evocativo, che provoca una sorta di partecipazione mistica”, scrive Bait in “Alpi d’Oriente” (Ediciclo, 192 pagg., 16 euro) che anche quando faceva il giornalista al Gazzettino, prima che la pensione gli lasciasse il tempo di poter scrivere storie di uomini e montagne – lo ha fatto con “I quaderni di Valbruna”, ma ha anche raccontato il corso del Timavo ne “Il fiume degli abissi” - non resisteva a lungo lontano dai boschi della Val Saisera, dalle rocce del Gran Nabois o dello Jof Fuart, prendeva la macchina e tornava a baita, a casa, come un sergente nella neve moderno e pacifico. “Alpi d’Oriente” sarà presentato il 20 settembre a Pordenonelegge in un dialogo con lo scrittore Mauro Corona.

Bait è un triestino, ma di quelli che al richiamo del mare della maggioranza ha preferito le sfide verticali della riposta e aspra Val Rosandra. Come Emilio Comici, come Tiziana Weiss, come Julius Kugy, figure che abitano alcuni capitoli del libro. Proprio “il cantore delle Giulie”, cui Bait assomiglia anche fisicamente, barba, pipa e occhiali tondi, è il suo ispiratore, il nume tutelare che sta dietro le pagine di tanti suoi scritti e anche di questa sua ultima fatica, brevemente riassunta in “storie di donne, uomini, animali e forest”.

«Scalatore e amante della musica - lo descrive Bait - precursore dell’aggregazione europea in quanto convinto e fedele suddito di una patria, per noi di frontiera una Nonna Patria (l’Austria di Francesco Giuseppe, ndr), che dell’identità plurale volle fare un punto di forza, ma che proprio la spinta centrifuga dei nazionalismi avrebbe condotto all’estinzione». A Kugy, che scriveva nella Vita di un alpinista ‘non si cerchi nel monte un’impalcatura da rampicate, si cerchi la sua anima’, Bait risponde, citando Bernardo di Chiaravalle: «Imparerai più dai boschi che dai libri».

I boschi della Val Saisera sono appunto il centro epico dei racconti che animano il libro. Epico per il ricordo dei caduti in guerra e per le storie degli uomini che dai boschi hanno tratto il lavoro. Come un liutaio di fama internazionale, Gio Batta Morassi, da Camporosso, e un maestro d’ascia di poche parole e raffinata esperienza, Bruno Deotto, di Valbruna, che dall’abete di risonanza sono riusciti a tirar fuori prodigiosi strumenti musicali.

E se i boschi del tarvisiano sono percorsi dal ritorno del lupo, che scorrazza in un branco di una ventina di esemplari, e dalla presenza timida dell’orso bruno, e ingentiliti dal maggiolino, il simpatico scarabeo la cui presenza secondo i vecchi di Valbruna segnala che c’è scarsità d’acqua, a minacciarli è un animaletto come il bostrico, un coleottero vorace e temibile capace di distruggere boschi e foreste favorito dalla siccità.

Tra faggi e abeti rossi, piante come la cinquefoglia delle Dolomiti ispiratrice della leggenda di Zlatorog, il camoscio dalla corna d’oro, Bait descrive la foresta come un’immensa società, un sovra-organismo gigantesco nel quale sente risuonare i versi di Peter Handke: «Restando fedele a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni, sentirò poi forse del tutto inatteso il brivido della durata…felice chiunque abbia i propri luoghi della durata!».

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