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L’intervista. Architettura coloniale e di oltremare e l’esperienza italiana in Africa: il nuovo lavoro di Giuseppe Pezzotti

Nei territori di quella che è stata l’Africa Orientale italiana ci sono, ancora oggi, esempi di architettura coloniale dovuti soprattutto all’abilità e alle competenze degli italiani esperti del settore, che li hanno progettati e fatti realizzare. Ed è proprio il contributo originale dei progettisti del nostro Paese l’argomento del volume, in uscita per M.A.Gi.C. Editore, intitolato “L’architettura coloniale in Africa Orientale italiana. I progettisti e il dibattito culturale tra vincoli politico–economici, accademismo, genius loci”. Ne parliamo con l’autore, l’architetto Giuseppe Pezzotti.

Quali sono le caratteristiche dell’architettura coloniale?

L’architettura coloniale nasce storicamente come “arte d’importazione”: è stato così durante le migrazioni in epoca classica greche e romane, lo è stato con ancora maggior forza durante l’espansione demografica arabo-islamica e ottomana, ha continuato ad esserlo dal XVI secolo in poi con le colonizzazioni europee soprattutto in Ameria e Africa. I suoi aspetti stilistici sono generalmente duplici: da una parte l’architettura coloniale nata come rappresentazione plastica della volontà di affermazione dei paesi colonizzatori, facilmente riscontrabile negli edifici di governo e in generale in tutti i progetti nati per raffigurare un potere, civile o religioso che sia.

Queste architetture sono spesso realizzate secondo i canoni in voga nello stesso periodo nei paesi di origine, penso al Barocco utilizzato dagli spagnoli in America latina che si semplificherà in quello che fu chiamato Mission Style, o al neopalladiano o georgiano inizialmente ampiamente impiegati dagli inglesi in America Settentrionale e nei dominios africani e asiatici e in seguito accantonati sotto la spinta dell’affermazione del Neoclassicismo. Parallelamente a questa architettura più di rappresentanza, si sviluppa il dibattitto sull’architettura domestica più attenta allo spirito dei luoghi, alle necessità dettate dal clima e dall’orografia, che investe quindi le tipologie, le tecnologie, i materiali da costruzione; un’architettura maggiormente capace di dialogare con le tradizioni locali e per questo, dal mio punto di vista, certamente più interessante.

Alla luce di quanto ci ha appena detto qual è allora il contributo specifico dato dai progettisti italiani in Africa orientale?

Intanto il formidabile lavoro di potenziamento delle infrastrutture e pianificazione del territorio e delle città: quando gli italiani lasciarono l’Africa orientale si può dire che non ci fosse centro urbano sprovvisto di Piano regolatore, compresi diversi insediamenti agricoli. E poi la capacità dei nostri progettisti, certamente non scontata per l’epoca, di sapersi confrontare con le culture edilizie e architettoniche preesistenti senza cadere nell’effimero e nel mimetismo, di studiarne le peculiarità compositive, tipologiche e distributive per riadattarle alla nuova architettura italiana d’Oltremare, di sperimentare nuove tecniche di costruzione partendo dai materiali locali.

Il risultato più importante è stato coniare quel “razionalismo mediterraneo” di cui Reggiori, Rava e Valle furono tra i principali teorici, riscoprendone le radici in millenni di architettura minore locale, in Italia come in Libia, nelle Cicladi come in Somalia, espressione della capacità di adattamento dell’uomo al clima e al territorio.

Un elemento molto interessante del suo libro è l’aver affrontato la questione del dibattito culturale apertosi nel dopoguerra tra diverse posizioni sull’architettura e l’urbanistica. Ci può spiegare, in sintesi, su cosa si basava il confronto?

Semplificando e cercando di non banalizzare: da una parte era il “differenzialismo” e il legame alle tradizioni senza riproporre canoni classicheggianti che in passato furono anch’essi espressioni coloniali, ma piuttosto nella loro declinazione moderna come fu appunto il razionalismo mediterraneo; la sensibilità al contesto quindi, a quello che i latini ci hanno insegnato a chiamare “genius loci”. Dall’altra il modernismo tout court, l’International Style, espressione del nuovo colonialismo culturale del dopoguerra: cemento armato, acciaio e vetro, che portano a un disegno della città arido e omologante. Le faccio io una domanda: se la portassi bendata nella periferia di una qualsiasi città del mondo che abbia subito un’espansione incontrollata, e lei potesse affidarsi solo al senso della vista, saprebbe dirmi in quale parte del mondo si troverebbe guardando solo le architetture e il disegno del quartiere?

Oggi, purtroppo, risulta molto difficile trattare anche scientificamente e/o culturalmente qualunque argomento connesso a determinati periodi storici che, nell’ottica della cosiddetta cancel culture, si vorrebbe fossero appunto cancellati. Cosa ne pensa, anche in riferimento ai temi da lei studiati e approfonditi?

Che è una follia, e che questo modo di (non) affrontare la ricerca storica è anch’essa una forma di nuovo colonialismo culturale. L’intellighenzia democratica, ispiratrice delle lobbies nate nei campus universitari americani e di molti, troppi accademici, politici e commentatori europei, da una parte desidererebbe che tutto l’Occidente fosse preda di immotivati sensi di colpa storici, dall’altra vorrebbe imporre l’agenda woke ai paesi africani, come evidenziato ultimamente da un commentatore lucidissimo come Federico Rampini, che ha denunciato questa nuova forma di colonialismo culturale: o accettate il nuovo verbo, o il Governo americano vi blocca i finanziamenti! Gli eritrei vanno invece giustamente fieri del fatto che Asmara sia stata riconosciuta nel 2017 patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, perché l’architettura razionalista italiana è ormai parte fondamentale del bagaglio culturale degli eritrei. Gli etiopi hanno restaurato, pur tra mille difficoltà, quanto si è salvato dalle dominazioni coloniali del passato, penso certamente a quelle arabo-islamica, portoghese e italiana. L’Albania, paese sul quale ho cominciato una nuova ricerca, non ha nessun desiderio nel vedere annichilita l’eredità italiana. Questo modo infantile e manicheo di leggere gli avvenimenti storici, nato come detto in Occidente per motivi unicamente ideologici e di ricerca del consenso, vorrebbe condannare gran parte del passato recente alla damnatio memoriae, con approssimazioni, cesure e scarsa capacità critica che denota il livello di chi lo fa propria.

Per concludere: ci dica, in una frase, perché il suo libro secondo lei merita di essere letto.

Perché l’architettura e l’urbanistica dell’Oltremare ha bisogno di essere ancora investigata e approfondita, e per farlo c’è bisogno di stimoli che non possono che giungere dalla critica. Criticatemi quindi, datemi spunti di riflessione ulteriori, spingetemi a continuare nella ricerca, purché la vostra critica non sia sterilmente accademica, reticente o peggio ancora ricalchi banali posizioni fideistiche.

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